Per la felicità di tutti gli uomini
di Pietro Gori
Amici e compagni miei.
Voi queste cose le avete pensate altre volte; oggi io che ho vissuto
molto tra voi e tra il popolo sempre, anche nelle città, ho cercato
di farvi meglio conoscere le ingiustizie della vostra condizione; ma
a voi, che avete forse sentite più di me le strette del bisogno,
e gli stenti di una travagliata esistenza, queste idee saranno più
d’una volta venute in forma più o meno chiara alla mente.
Ma voi siete anche qui venuti, e vi siete raccolti. Voi avete anche
compreso che solo l’unione di tutte le forze vostre può
prepararvi un avvenire migliore.
Entrando qui, voi eravate già ribelli contro le ingiustizie di
questa società corrotta, voi avete avuto la speranza e il desiderio
di una esistenza migliore, voi entrando qui eravate già degni
di migliori destini, perché era in voi la coscienza dei vostri
diritti. Voi entrando qui eravate già anarchici per sentimento.
Voi nelle giornate lunghe, eterne nel lavoro senza tregua e senza riposo,
tra i geli dell’inverno, e sotto la sferza del sole di estate,
o seduti innanzi alla vostra tavola, dove è scarso il pane, e
attorno alla quale i figli mal vestiti tremano dal freddo, avete forse
avuto come in un sogno la visione di una grande, di una immensa famiglia,
composta di tutta la umanità vivente fraternamente in un comune
e reciproco amore, in una santa concordia; tutti eguali nei diritti
e nei doveri, tutti lavoratori attivi e fecondi, a cui la fatica non
fosse come ora insopportabile e dura, allietati di un conforto, di un
sano e largo nutrimento, di un riposo ristoratore, di una qualche ricreazione
dello spirito. Voi forse l’avete sognata ed avete un desiderio
ed una speranza che questo sogno diventi realtà.
E voi avete nel vostro cuore il patto solenne e il giuramento che combatterete
uniti per il conseguimento di questa grande felicità di tutti
gli uomini.
Ma se voi tutte queste cose avete pensato entrando qui dentro, eravate
già anarchici nel cuore e nel desiderio. Se voi avete fermo nella
mente il proposito che lo stato attuale delle cose abbia in un modo
o nell’altro termine; ed il vostro ideale possa essere compiuto
quanto più presto possibile; e se anche avete compreso le poche
cose, che stasera ho cercato alla meglio di esporvi, voi fin da questo
momento cominciate a far parte della grande famiglia anarchica che cospira
a rivendicare i diritti di tutti gli oppressi contro le prepotenze di
tutti gli oppressori. - Ma se voi desiderate conoscere come questa grande
famiglia anarchica vive, e come pensa di raggiungere il suo ideale,
e qual debba essere la sua missione nelle nuovissime battaglie del pensiero
moderno, io vi dirò brevemente.
Se
a tutte le angustie del presente sistema economico-sociale voi vi sentite
e vi dichiarate ribelli, voi siete anarchici, perché avete la
coscienza dei vostri diritti di uomini. Voi siete anarchici perché
volete distruggere questa putredine dell’oggi per edificare la
società umana sotto una forma nuova e differente, sulle basi
dell’amore, della fratellanza e della solidarietà.
Ecco perché voi siete, e vi chiamate anarchici.
Il grande partito anarchico internazionale, è come una immensa
famiglia composta dei lavoratori e degli oppressi di tutto il mondo.
Esso si prepara ad una grande battaglia e questa sarà la più
gloriosa, la più giusta, la più santa battaglia dell’avvenire;
la rivoluzione sociale, la battaglia finale di tutti gli oppressi contro
gli oppressori, di tutti gli sfruttati contro tutti gli sfruttatori.
La rivoluzione sociale sarà la rivendicazione di tutti i diritti
del popolo, sarà il gran giorno dell’uguaglianza umana:
la rivoluzione sociale spazzerà via come il soffio potente di
una immensa tempesta, tutti i privilegi e tutte le ingiustizie del presente,
tutte le barriere e tutti i confini tra popolo e popolo. L’aria
sarà purificata da quella ultima lotta di tutto l’avvenire
contro tutto il passato.
Cadranno le mostruose e decrepite istituzioni del presente, e l’organismo
della grande famiglia umana rifiorirà spontaneamente, secondo
le leggi immutabili della natura.
(...)
Il lavoro è dunque il primo elemento della vita sociale, e attorno
alla gloriosa bandiera del lavoro l’umanità affratellata
si stenderà amorosamente la mano, allorquando sotto lo scroscio
formidabile della grande rivoluzione, sarà caduta la proprietà
individuale, e sarà subentrata a questa la proprietà comune.
Colla proprietà individuale cadranno tutti i privilegi di casta.
Avendo tutti gli uomini gli stessi diritti e gli stessi doveri nelle
relazioni reciproche, nessun lavoro sarà più disprezzato
di un altro, giacché tutti i lavori, anche quelli considerati
ora come i più abbietti, sono nobili, perché sono utili
all’uomo, e tutti più o meno necessari alla convivenza
sociale. Il lavoro sarà diviso fra gli uomini a seconda delle
attitudini e della capacità e dell’ingegno di ciascuno;
nobile e rispettato del pari il lavoro intellettuale, non meno faticoso
di quello manuale, del medico, dell’ingegnere, del meccanico,
come il lavoro materiale dell’operaio e dell’artigiano.
Ognuno darà l’opera sua nella corporazione d’arte
e di mestieri, a cui appartiene, a seconda delle proprie forze; e le
produzioni dei diversi generi di lavoro, i raccolti della campagna,
i prodotti dell’industria e dell’arte saranno custoditi
nelle varie località in depositi comuni, da cui ciascuno prenderà
quanto gli abbisogna per se e per la famiglia.
La formula del lavoro e del consumo si riassume nella massima: Da ciascuno
secondo le proprie forze, a ciascuno secondo i propri bisogni.
Il lavoro essendo allora divenuto un dovere per tutti, ed essendo moltissimi
più i lavoratori, la produzione di tutti i generi avrà
un grandissimo aumento; tanto da essere più che sufficiente ai
bisogni di tutti, e la divisione del lavoro tra un numero di persone
assai maggiore di quelle che attualmente devono produrre per tutti,
risparmierà a ciaschedun lavoratore parecchie ore di fatica.
Tutto quello che verrà accumulato nei magazzini e nei depositi
della comunità, prodotti della terra, tessuti, manifatture, commestibili
ed ogni oggetto infine necessario alla vita, essendo il frutto del lavoro
di tutti, dovrà appartenere a tutti indistintamente.
Pietro Gori
(...)
Se Errico Malatesta fu l’agitatore instancabile e l’organizzatore,
se Luigi Fabbri fu l’intellettuale acuto e aperto alle sollecitazioni
di una società in profondo mutamento, Pietro Gori
fu, a cavallo fra ottocento e novecento, fra i grandi anarchici italiani,
quello che più di ogni altro riuscì a comunicare all’immaginazione
delle masse popolari la grandezza e la sovversiva originalità
dell’umanesimo anarchico.
La sua vita avventurosa e la tragica e prematura morte ne hanno a lungo
accompagnato il ricordo, evidenziandone gli aspetti più romantici,
quelli che ne hanno fatto “il cavaliere dell’ideale”
o il “poeta dell’anarchia”, ma la sua attività
sociale, ben lungi dall’essere improntata a una approssimativa
divulgazione dell’idea anarchica, fu determinante per il crescere
e il consolidamento fra le classi subalterne di una volontà di
rivolta cosciente e di emancipazione solidale. La sintesi fra il solido
pensatore, l’agitatore irrequieto e il comunicatore di straordinaria
grandezza, contribuì alla nascita di un mito duraturo che appartenne,
trasversalmente, non solo agli anarchici della “sua” Toscana,
ma a tutti coloro che aspirarono e lottarono, col pensiero e con l’azione,
per l’edificazione di una società in cui giustizia e libertà
non fossero parole vuote destinate a pochi, ma i principi fondamentali
della vita collettiva. Un mito, quello di Pietro Gori, consolidatosi
nella convergenza fra il suo percorso di vita, “cristianamente”
dedicato agli oppressi, e quello di larghi strati popolari che trovavano
finalmente, nella sua azione, lo strumento della propria emancipazione.
Simile alla dedizione dei contadini reggiani per Camillo Prampolini,
o delle mondine di Molinella per Luigi Massarenti, l’amore che
i minatori dell’Elba portarono a Gori spiega più e meglio
di tanti discorsi quanto profondamente incisero, in quegli anni, le
idee di libertà dell’anarchia.
Nato a Messina nel 1865 da genitori toscani e laureatosi a Pisa in giurisprudenza,
ben presto inizia la propria attività di propagandista del pensiero
anarchico, spesso affiancata da quella di avvocato negli innumerevoli
processi che vedono altri anarchici sul banco degli accusati. Il primo
arresto, con condanna a un anno di carcere, è del 1890 e successivamente
le numerose sentenze a suo carico (tutte comminate per reati d’opinione)
lo porteranno ad affrontare più e più volte l’esilio,
ora nel nord dell’Europa, ora nelle Americhe. Nel 1891 è
al congresso anarchico di Capolago, dove vengono gettate le basi del
partito socialista anarchico rivoluzionario, e nel 1892 partecipa a
Genova ai lavori del Congresso che vede riunite le Società Operaie
di tutta Italia, dove, con la nascita del partito socialista italiano,
si consuma definitivamente la separazione fra le due scuole del socialismo,
quella anarchica, rivoluzionaria e antiparlamentare e quella socialdemocratica,
riformista e parlamentare. Costretto nel 1894 ad abbandonare l’Italia,
ripara dapprima in Svizzera (quando il governo elvetico lo espellerà
su pressioni dello stato italiano compone la famosissima Addio a Lugano)
poi in Belgio e Olanda e infine a Londra, dove entra in contatto con
il principe anarchico Kropotkin e la combattiva Louise Michel, eroina
della Comune di Parigi. Da Londra passa negli Stati Uniti dove svolge,
nella numerosa colonia italoamericana, una intensissima attività
di pubblicista e conferenziere. È soprattutto grazie a questa
sua presenza, e a quella quasi contemporanea di Malatesta, che si consolida
in America fra gli immigrati italiani un forte e duraturo movimento
anarchico.
Dopo una breve parentesi in patria, una nuova condanna a 12 anni di
galera lo risospinge all’estero, questa volta in Argentina (dove
fonda l’importante rivista scientifica in spagnolo Criminalogia
moderna), poi in Cile, Uruguay e Brasile. Rientrato in Italia grazie
ad una amnistia, nel 1903 fonda, assieme a Luigi Fabbri la rivista Il
Pensiero, che nei suoi otto anni di esistenza sarà un punto di
riferimento costante e imprescindibile dell’anarchismo organizzatore.
Gli ultimi anni di vita, ormai minata dalla tubercolosi, ne vedono notevolmente
ridotta l’attività, ma nonostante il male che ne fiacca
tragicamente le forze, cerca ancora, quando possibile, di dare il suo
contributo alla causa. Un ultimo giro di conferenze in Romagna e nelle
Marche, la sistemazione dei suoi numerosissimi scritti, sono gli ultimi
segni del suo lavoro. Si spegne a Porto Ferraio, nell’amatissima
isola d’Elba, nel gennaio del 1811.
Qui sono riprodotte, da un bellissimo romanzo di Angelo Toninelli, le
pagine che descrivono i suoi funerali, ultima grandiosa manifestazione
di affetto del popolo toscano a Pietro Gori. Sono pagine a mio parere
straordinarie, non solo per come riescono a riportare nella loro esattezza
storica i momenti delle esequie, ma perché descrivono con una
immediatezza quasi “contemporanea” il grande attaccamento
che le popolazioni elbane e della Versilia portavano al loro paladino,
a quella figura che ai loro occhi aveva sempre rappresentato quanto
di più caro, nobile e solidale potesse esserci.
Massimo Ortalli
Lungo
la strada ferrata
di Angelo Toninelli
Sulla Piazza del Mare, nelle strade del porticciolo i capannelli si
stringevano intorno a chi aveva un ricordo da raccontare o riferiva,
per sentito dire, episodi della sua vita, già leggendari nella
memoria: le arringhe alla pretura di Piombino e di Portoferraio in difesa
anche del più povero dei diavoli, perché quando era nell’isola
non rifiutava mai il suo aiuto ad un amico, ad un compagno, o a uno
sconosciuto; la sua casa sempre aperta, la sua modestia, perché
era un signore nei modi ma semplice nel cuore; e le piazze affollate
e vibranti al martellare del suo discorso, la gioia, l’allegria,
la speranza che irradiava intorno a sé.
Alla stazione, e dalla stazione al porto, e per tutto il giorno fu un
continuo corteo di persone che volevano andare a Portoferraio, gruppi
di anarchici di tutta Italia, delegazioni delle Camere del lavoro di
tante città, con le bandiere strette in un nodo di lutto. Molti
che non riuscirono a trovare posto nell’ultimo vaporetto si consolarono,
sarebbero rimasti a salutarlo per l’ultima volta il giorno dopo,
quando Gori si sarebbe fermato a Piombino, per poi raggiungere sua madre
nella tomba di famiglia a Rosignano Marittimo.
E il giorno dopo i bastioni, piazza Bovio, il porto, le strade e le
piazze che guardavano l’isola erano gremite di folla, quando nelle
prime ore del pomeriggio la sagoma del piroscafo Giglio sbucò
dalla foschia. Il suono della sirena raggiunse Piombino che nereggiava
di dolore e la nave, scivolando al largo della Rocchetta, virò
per entrare nel porto.
La folla seguì in silenzio le manovre di attracco. Si udivano
solo lo stridore metallico della catena dell’ancora, gli ordini
del capitano e il gridio acuto dei gabbiani che volteggiavano inquieti.
Si avvicinarono le barche per trasbordare i passeggeri: le mani protese
accolsero la bara che altre mani, quelle dei minatori dell’Elba,
porgevano dall’alto; su un’altra barca prese posto Bice,
la sorella di Pietro, e il piccolo corteo si mosse nello specchio d’acqua.
La banda ora suonava meste melodie. Dietro la bara, portata a spalle
da otto operai, si mosse poi il fiume di corone di fiori, tra due ali
di gente, mani che lanciavano un rosso garofano, mani che salutavano,
mani che avrebbero voluto toccare appena quel legno per imprimere meglio
nella memoria il ricordo. Volti di donne che potevano piangere senza
vergognarsi, mentre gli uomini si asciugavano frettolosamente gli occhi.
Il corteo entrò in città dalla Porta a mare, la attraversò
e sfociò in piazza Bovio.
Pasella, a nome della Camera del lavoro, pronunciò un breve discorso,
poi il sindaco, infine parlò Carlo, con il volto disfatto e la
voce che gli tremava.
“Noi che gli siamo amici”, disse, “e che abbiamo vissuto
insieme a lui tante ore della nostra vita, e voi che ormai lo consideravate
un vostro paesano, costretto ad allontanarsi spesso, ma legato profondamente
alla nostra terra che ogni anno lo vedeva ritornare, e che lo ha accolto
in questi ultimi giorni dolorosi, noi e voi non abbiamo bisogno di tante
parole per dire chi è Pietro Gori, per ricordarci di lui. Ma
alcune cose bisogna pur rammentarle, perché gli altri sappiano,
perché almeno di fronte alla morte la menzogna ceda alla verità.
Hanno sempre diffamato gli anarchici, li hanno detti violenti e assassini.
Chi è stato più mite di Pietro, chi più di lui
ha rifuggito la violenza, chi più di lui l’ha subita! Ai
dotti che parlano di criminalità, di degenerazione della razza,
e ai servi ottusi che pretendono di rappresentare la giustizia, Gori
in tante opere ha sempre detto: cercate nella triste realtà sociale
le cause che inducono al delitto, cercate nella miseria, nell’ignoranza
in cui le moltitudini sono costrette a vivere le radici della violenza
e della delinquenza, non limitatevi a giudicare con le fredde leggi,
esse sì criminali. Non tappatevi gli occhi per non vedere. L’uomo
nella sua natura è buono. E’ la società, questa
società corrotta di egoismi e di rapine, di soprusi e di ingiustizie
lo spinge all’odio e gli mette in mano l’arma fratricida.
Non sono le nostre idee, la nostra parola di anarchici a farlo divenire
assassino, perché noi diciamo: cambiamo questa società,
creiamone una nuova, giusta, umana, libera, e l’uomo seguendo
la sua natura vivrà in pace. Questa era l’anarchia che
Pietro sognava e predicava e per la quale tanto è stato perseguitato
e tanto ha sofferto.
Dicono che gli anarchici ripudiano la famiglia, che nel loro cuore di
malfattori non albergano affetti profondi. Chi più di Pietro
ha amato la madre, la sorella, lui che non aveva che questo unico tormento,
questo solo rimorso, di aver dato alla madre più dolori che gioie,
lui che ha lasciato, in poesie tenere e dolci, la più delicata
testimonianza di amore filiale e fraterno.
Dicono che gli anarchici sono egoisti, pericolosi per la vita civile,
che rinnegano la patria. Chi come Pietro ha donato tutto se stesso,
i suoi beni, la sua vita, i suoi affetti, la sua mente per l’amore
degli altri, per l’umanità intera. Si, è vero che
gli anarchici non hanno patria perché il mondo intero è
la nostra patria, perché tutti gli uomini sono nostri fratelli.
E Pietro è stato americano con gli americani, inglese con gli
inglesi, francese con i francesi. Non aveva patria perché aveva
il mondo, ma dal lontano esilio guardava anelante alla terra in cui
era nato, dove la famiglia e gli amici lo aspettavano con affetto, devozione,
ammirazione, riconoscenza.
Uomo mite, ma forte, semplice e umile con gli umili e i semplici, ma
fiero e orgoglioso combattente, tenace, mai ha piegato la testa di fronte
all’ingiustizia, mai ha dubitato, in un attimo di debolezza o
di sconforto, nella sua fede nell’uomo e nella libertà.
Per lui anarchia non ha mai significato sterile individualismo, ma collaborazione
tra uguali. Per tutti noi è stato un maestro di vita, oltre che
amico e fratello, un esempio di coerenza e di sacrificio.
Addio, Pietro. Senza di te saremo più smarriti, senza la tua
guida faremo più fatica ad andare avanti, ma il tuo ricordo e
il tuo pensiero ci aiuteranno, come quando in vita ci aiutavi con la
tua parola, il tuo sorriso.”
Accanto a Gigi, a pochi metri dalla bara ricoperta di bandiere e di
fiori, Vera piangeva sommessamente, e quando, avviandosi tutti verso
la stazione dove un carro merci era già pronto per portarlo al
paese di sua madre, risuonarono le note di Addio Lugano, la sua voce
si unì al canto di tutta la piazza: “... gli anarchici
van via, e partono cantando con la speranza in cor...”. “Addio
Gori, ti ho voluto bene”, disse un vecchio avvicinandosi a salutare
l’amico.
Il treno si mise in movimento alle quindici e trenta.
Lungo la strada ferrata, davanti ai passaggi a livello, tra i solchi
dei campi, sul limitare delle case, la gente lo vide passare, gli uomini
si tolsero il cappello, le donne si fecero il segno della croce. A Campiglia,
a Follonica, a San Vincenzo, a Bolgheri, a Cecina, in tutte le stazioni
dove sostò, lo attendeva da ore una moltitudine giunta dalle
campagne e dai paesi vicini. il tetto dell’ultimo vagone dove
viaggiava Gori si ricopriva ogni volta di garofani e di crisantemi,
che cadendo mano a mano che il treno si allontanava lasciavano lungo
i binari una scia rossa come di sangue. Alle prime ombre azzurre della
sera ecco l’ultima tappa, Castiglioncello, e qui un’altra
folla immensa, dopo le parole accorate del sindaco, si avviò
lungo i sette chilometri di strada che, tra colline verdi di ulivi e
di pini, si inerpicava tortuosa verso Rosignano. Nell’aria andavano
le parole dell’inno del Primo maggio: “Date fiori ai ribelli
caduti/ collo sguardo rivolto all’aurora/ al gagliardo che lotta
e lavora/ al veggente poeta che muor...”.
Rosignano, sulla collina in faccia al mare, con le bianche case e il
castello rossiccio, si stagliava contro un cielo livido nell’ultima
luce del giorno. Il mattino dopo, appena fuori del paese, al di là
del cancello di ferro del piccolo camposanto, nella cappella di famiglia
lo attendeva la madre, morta nel novembre del 1903.
Chi in quei giorni non ebbe un moto di commozione invidiò in
cuor suo l’affetto e l’amore che stringevano tanta gente
intorno a quella bara e si sentì alla fine meschino nella sua
diversità. Lo stato, che lo aveva perseguitato in vita come il
peggiore dei malfattori, non sentì il pudore di ritirarsi in
disparte, di rispettare il dolore, di chiudere il suo occhio indagatore
e allontanare la sua mano armata. Il paese e le strade intorno furono
vigilati da centinaia di gendarmi in tenuta di guerra. “Siete
stati crudelmente cinici nella morte come foste persecutori spietati
in vita”, protestò Bice Gori in una lettera aperta al capo
del governo Luzzatti.
Angelo Toninelli
(da Ritratti in piedi, a cura di Massimo Ortalli: http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/275/48.htm)