La teoria dei colori (1808) di Johann Wolfgang Goethe

(dall'introduzione di Giulio Carlo Argan a J.W.Goethe, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. X-XI, XVII-XIX)

La prima mossa della contestazione goethiana della tesi newtoniana della dipendenza dei colori dalla luce è sorprendente, quasi un anticipo della metodologia fenomenologica. Porre il colore come prodotto della divisione della luce implicava una petizione di principio; il fatto che senza luce non ci siano colori non significa che i colori siano le componenti della luce bianca. Il luogo in cui si colgono nel loro formarsi i fenomeni luminosi e coloristici non è lo spazio, ma lo strumento fisiologico congegnato apposta per percepirli, l'occhio. Da un lato è un passo verso un empiricismo integrale che nega qualsiasi metafisica, dall'altro è una riconferma dell'assoluta soggettività (che non significa arbitrarietà) del percepire: infatti l'indagine non è portata sull'anatomia dell'occhio, che funziona come un meccanismo di ripresa. Poiché la natura-oggetto e la persona-soggetto sono realtà vive e in movimento, e ciò che si vuole cogliere è la relazione tra due ritmi di moto, bisogna vedere come l'occhio si comporti nel corso di una percezione che non è mai, in nessun caso, istantanea. L'analisi è dunque sempre l'analisi di un processo della mente.
Se la Farbenlehre [La teoria dei colori di Goethe] non fosse stata per troppo tempo quasi dimenticata (il primo moderno a occuparsene a fondo fu Rudolf Steiner sul finire del secolo scorso) si sarebbe facilmente notato che l'obbiettivo principale di Goethe era la dibattuta questione dell'oggettività e della soggettività del conoscere: è chiara la connessione con Kant, e proprio per questo la teoria dei colori è chiarissimo segno dell'evolvere della cultura illuministica nella romantica. La trattazione, per altro, non ha nulla di esplicitamente filosofico: tolti rari postulati generali e la generica asserzione che alla sperimentazione scientifica presiedono postulati teorici, si riduce alla descrizione di fenomeni ottici osservati personalmente. Il dubbio circa la corrispondenza delle impressioni soggettive alla realtà di fatto non si sarebbe del resto potuto risolvere con postulati o teoremi matematici. (...)
La Farbenlehre è forse il primo disegno di una psicologia della percezione, di una Gestaltpsychologie. L'attività dell'occhio è complessa: bisogna spiegare la permanenza delle immagini sulla rètina, la capacità dei toni di mutare di qualità e di grandezza per la presenza vicina di altri toni, la produzione continua di immagini che non corrispondono ad oggetti esterni, e si potrebbero chiamare endogene. Se le immagini non durassero oltre lo stimolo immediato la realtà apparirebbe come una rapida successione d'immagini staccate; la permanenza le lega in una continuità ritmica che verosimilmente dipende dalla tendenza a non recepire la realtà come una proiezione, ma come un discorso. Ma ciò significa che la percezione è anche memoria e, quindi, immaginazione. La forza espansiva dei chiari e dei caldi e quella riduttiva degli scuri e dei freddi si constatano sperimentalmente, anzi sono quotidiana esperienza: ed è così che noi viviamo, senza prenderne precisa coscienza, il ritmo di sistole e diastole che è il respiro del cosmo. È molto estesa la casistica dei colori che vengono chiamati fisiologici perché nascono e agiscono all'interno dell'occhio come percezioni ausiliarie o integrative. Precedentemente erano stati chiamati illusori, immaginari, accidentali, avventizi: lo Hamberger li definiva addirittura inganni ottici. Goethe li considera strumentali ai fini della giusta percezione: l'occhio li fabbrica perché ne ha bisogno. Della loro non-arbitrarietà e non-superfluità non si può avere la prova provata: sta di fatto che tutti li percepiscono (non importa se con gli occhi chiusi o aperti) e li percepiscono nello stesso modo, tanto da doverli chiamare patologici quando sono diversi (caso tipico, il daltonismo). Hanno funzioni diverse: di compensazione di sensazioni troppo intense, di correzione di errori percettivi, di mediazione tra sensazioni distanti, d'integrazione delle incomplete ecc. Intervengono dunque a far collimare le sensazioni con certi patterns che evidentemente preesistono e che, a non volerli considerare connaturati, dipendono da lunghi processi di aggiustamento e di assuefazione nel rapporto tra uomo e mondo. Ancora una volta si scopre che la teoria della percezione è in realtà la storia della percezione: se già la permanenza sulla rètina faceva pensare ad una memoria ottica, la capacità imagopoietica identifica l'occhio con l'immaginazione.
Anche se del colore delle ombre è già cenno in Leonardo, è nuova l'importanza che si dà alla questione dei complementari o dei contrasti simultanei. Non c'è più una successione: la percezione di un colore determina immediatamente, come controparte, la percezione del colore opposto che lo compensa. Se avesse approfondito l'osservazione e l'analisi, Goethe sarebbe arrivato a tre deduzioni importanti: 1) il contrasto simultaneo, ponendo ogni colore in rapporto soltanto con altri colori, elimina il riferimento comune alla scala chiaroscurale dal bianco al nero; 2) la simultaneità del contrasto ne indica il tempo, l'assoluto presente; 3) due complementari sono i due colori più lontani tra loro, quindi la loro associazione segna il momento di massima "attività" (che significa anche presenza) della mente percettiva, o dell'occhio. Poco è mancato che Goethe teorizzasse l'Impressionismo con circa settant'anni di anticipo. Ma naturalmente l'Impressionismo non è stato inventato né da Goethe né da Chevreul, bensì dagli Impressionisti.