La musica è un linguaggio? - seconda parte
Il comportamento musicale come linguaggio

Il comportamento musicale come qualunque evento fisico deve poter essere soggetto a misurazione, se se ne hanno gli strumenti.

Un modo di affrontare questo problema è di considerare il prodotto musicale alla stregua di un linguaggio ed applicare ad esso i parametri costruiti da Ch. Morris per l’esame dei linguaggi.
Secondo questo studioso, un sistema di segni è un linguaggio se rispetta le regole della sintassi, della semantica e della pragmatica.

La sintassi è la disciplina che si occupa delle relazioni che i segni hanno tra loro, all’interno di un sistema.
La semantica si occupa delle relazioni che i segni di un sistema hanno con gli oggetti, le azioni o gli eventi cui si riferiscono. La pragmatica analizza le relazioni esistenti tra segni ed i soggetti del gruppo sociale che ne fa uso.

Applicando queste regole al linguaggio musicale, si troverà che la sintassi dovrà occuparsi delle norme che consentono di legare tra loro i diversi segni del progetto musicale; la semantica analizzerà il significato di questi segni, isolati o in rapporto reciproco, hanno con il mondo cui si riferiscono; la pragmatica studierà il modo in cui, in ciascuna cultura, questi due gruppi di norme vengono rispettate ed eventualmente, trasgredite.

Sintassi

La sintassi musicale si occupa, dunque, delle norme che consentono di combinare i segni musicali in un progetto. Ogni cultura, ogni epoca ha avuto, e ha, la propria sintassi musicale.

La grammatica con cui essa (la musica) ha a che fare è la grammatica di una lingua che si parla soltanto nelle aule dei conservatori, mentre il linguaggio musicale concretamente parlato funziona secondo moduli e regole ben lontani da quelli che ci si ostina ad insegnare nella nostra struttura scolastica professionale.

La modalità di apparizione e di relazione dei segni musicali è il loro esplicitarsi nel tempo.

Come ha scritto R. Francès, l’esperienza musicale è quella di una particolare organizzazione del tempo musicale: di tratta di una messa in ordine del temporale sonoro.

M. Imberty ha mostrato, con esempi tratti da Brahms, Debussy e Berio, che la musica è sostanzialmente una rappresentazione simbolica della esperienza esistenziale del tempo.
Sembra, quindi, che la scansione temporale sia il modo privilegiato di operare della sintassi musicale e che essa si esprima in termini di velocità e di successione, e cioè di ritmo, e in termini di durata tonale, e cioè di intervallo.


Ritmo

Sin dall’antichità gli uomini si sono interrogati sull’origine della musica: E’ noto che presso i Greci la musica era ritenuta invenzione divina e dono degli dei.

L’osservazione della ritmica musicale portò ben presto a fare paragoni con ritmi biologici: in Aristide Quintiliano, un teorico vissuto tra il I ed il IV secolo dopo Cristo, e di cui si ignora quasi tutto tranne ciò che scrisse nel De Musica, il paragone tra il battito del polso ed il ritmo musicale acquista un evidente valore di riferimento.

Secondo Aristide il ritmo musicale doveva essere proporzionale e regolare, come il battito del polso, infatti i teorici si ritrovano ben presto a fare i conti con i ritmi essenziali e biologici. queste innegabili analogie tra ritmi biologici e ritmo musicale hanno portato per un certo periodo, alcuni teorici a riconoscere nei ritmi biologici l’origine e la sorgente della musica.
Ma ben presto però si accorsero che il battito dell’uomo non rappresenti più di una metafora del ritmo musicale.

Abbandonata la teoria del ritmo va abbandonata anche la teoria del richiamo che pone la nascita della musica in relazione al bisogno di chiamare un altro essere umano.

Intervallo

L’altra misura della sintassi è l’intervallo. Con questo termine si indica il continuum sonoro all’interno del quale è lecito scegliere gli elementi del progetto musicale.


Semantica

La semantica è la parte della semiotica che studia le relazioni che i segni hanno con le cose cui si riferiscono. Affinché un sistema di segni possa diventare un linguaggio è indispensabile, infatti, che i segni di cui si compone abbiano un riferimento certo ad oggetti od eventi, di cui diventano i sostituti.
Sulla semantica musicale oggi esistono opinioni differenti, riconducibili a due indirizzi: secondo alcuni il linguaggio musicale sarebbe generalmente privo di denotazione.

Il contenuto semantico della musica appare, a costoro, contestuale, vale a dire racchiuso in se stesso ed affidato non alla relazione suono-realtà extrasonora, ma all’insieme del tessuto fonico-strutturale.

Secondo altri una semantica musicale è possibile, ed esiste, ma solo nelle convenzioni ed in alcuni precisi patti validi all’interno di particolari gruppi sociali ed in contesti storico-culturali determinati. Una delle condizioni di ogni sistema comunicativo è, dunque, che i segni che lo compongono siano significanti, cioè facciano riferimento ad un significato che li trascende: l’espressione linguistica o significante è tale in quanto riferita ad un contenuto o significato.

La denotazione, e cioè la relazione significante-significato, è fondamentale in ogni trasmissione di messaggi. In altre parole, in un sistema comunicativo i segni devono essere segni di qualcosa d’altro.

Charles Sanders Peirce ha affermato che un segno può essere di qualcosa ‘altro, o di una icona, o un indice, o un simbolo.


Icona

L’icona è un segno che rappresenta un oggetto per somiglianza: essa è quindi, in primo luogo, l’immagine di qualcosa.
Il ritratto di qualcuno è la sua icona, la sua immagine.

Nel linguaggio musicale l’icona è l’immagine sonora di qualcosa o di qualcuno,

a) o perché tra suono ed oggetto vi è somiglianza acustica, come quando la musica imita il rumore del temporale o del vento: si tratta allora di armonia imitativa;

b) o perché la relazione che esiste tra le parti del progetto musicale imita la relazione esistente tra gli oggetti e gli eventi cui si riferisce, come nel caso in cui la musica imiti i movimenti dei danzatori, nel Minuetto e nel Rondò;
oppure perché l’appartenenza dell’oggetto e del segno musicale alla medesima classe di fenomeni, sottolineandone la somiglianza, ne consente lo scambio, come quando scale musicali ascendenti vengono utilizzate per rappresentare il cielo e scale discendenti per rappresentare la caduta o la discesa all’inferno.
Il procedimento costruttivo utilizzato in questo caso è assai simile alla metafora.

C. Dahlhaus elenca sei possibili immagini musicali:

  • Pittura grossolana e rozza, e cioè imitazione di rumori e suoni naturali.
  • Imitazione di movimenti spaziali: suoni alti o bassi per indicare luoghi alti o bassi, scale ascendenti o discendenti per indicare movimenti nello spazio. Il valore di tali imitazioni è puramente metaforico e convenzionale.
  • Imitazione delle inflessioni ed intonazioni del discorso parlato, nella convinzione che al di la dei diversi linguaggi, esista una lingua universale che la musica può cogliere forse meglio delle parole.
  • Imitazione dei sentimenti, e cioè imitazione di una natura interiore come contrapposta alla natura esteriore, ottenutasi con la rappresentazione delle figurazioni barocche dei sentimenti, sia attingendo direttamente alla autenticità dei sentimenti.
  • Imitazione di idee e dei loro contenuti simbolici, tramite complicate costruzioni di cui è esempio la scrittura cifrata che R. Schumann affidò, nel Carneval, ad una struttura melodica celata, continuamente ripetuta e variata, e che solo gli adepti riescono a percepire.
  • Imitazione come rivelazione della struttura profonda e non della realtà, sia nella convinzione della coincidenza tra struttura matematica del cosmo e struttura matematica della musica, sia, più simbolicamente, nella convinzione di una allusività del sistema musicale, perso nel suo insieme ed inteso come sistema chiuso, al sistema della natura, per altra via impenetrabile.


Oltre a questi sei tipi di immagine musicali è doveroso far cenno di una settima immagine musicale.
Esempi di queste icone musicali si trovano nelle musiche a programma e nelle composizioni operistiche dell’Ottocento e del Novecento, concretizzate in frasi, spesso melodiche, con le quali l’autore annuncia, o anticipa, l’entrata in scena di un personaggio: quella melodia diventa per tutti il ritratto musicale del personaggio.

Cano riprendendo queste tematiche, ha recentemente proposto tre categorie principali di icone musicali, che chiama fenomeni fonosimbolici:

  • Simbolismo eroico, quando il suono fonetico richiama direttamente qualche aspetto sonoro del designato.
  • Simbolismo sinestetico, quando il suono evoca caratteristiche dei designati pertinenti ad altre modalità sensoriali, come nel caso delle metafore del suono duro e molle;
  • Simbolismo fisionomico quando il suono evoca caratteristiche emotive o psicologiche, come nelle metafore di suono allegro o triste.

Butor dice:
“dichiaro la musica arte realistica poiché anche nelle forme più elevate, in apparenza aliene da ogni legame con il reale, essa ci insegna qualcosa a proposito del mondo; perché la grammatica della musica è una grammatica della realtà; perché il canto cambia la vita”.

Come fa rimarcare Dahlhaus per realismo o realistico, si intende qualsiasi atteggiamento o comportamento che imiti, o tenti di riprodurre la realtà.

Che questa realtà siano i rumori, i movimenti, i sentimenti che l’uomo pone o coglie tra sentimenti ed avvenimenti, i traslati dei linguaggi, delle perlate, dei canti popolari rivisitati in chiave tonale, o gli intimi legami che stanno al di la delle cose che si vedono o si sentono, o, infine, e, per la verità, all’inizio, giacché questo era il pensiero dei pitagorici, “l’ordinamento numerico alla base sia della struttura dell’universo sia del sistema musicale”, è soltanto questione di moda di epoca e di tendenza culturale.

Quel che sembra di poter concludere a proposito del rapporto tra significante e significato in musica è che il prodotto musicale è quasi sempre l’icona di qualcosa.


Indice

L’indice è un simbolo che focalizza l’attenzione.
Un segno indice non caratterizza ciò che denota … e non occorre che assomigli a ciò che denota (Morris).

Mandler ipotizza che ogni volta che lo schema percettivo o motorio, cui l’organismo normalmente si affida nell’interpretazione o progettazione di eventi, viene interrotto da cause esterne, scatta nell’organismo una reazione che produce aumento di attenzione e canalizza l’energia verso la ricomposizione dello schema o la progettazione di un altro schema che, fatto tesoro dell’elemento che ha provocato la rottura del precedente, consenta la decodificazione del messaggio.

La interruzione di uno schema percettivo o motorio costituisce, quindi, un indice nel linguaggio del sistema nervoso, un segno, cioè, che indica il mutamento di qualche equilibrio.

Ogni distacco dalla buona forma musicale costituisce un indice nel linguaggio musicale, cioè un segno di mutamento in grado di provocare, in chi ascolta, un riflesso di orientamento, una concentrazione dell’attenzione verso ciò che è stato annunciato.

L’indice, nella semantica musicale, è dunque, qualunque segno che, intervenendo ad interrompere una struttura-schema, annunci un mutamento.

La tecnica con cui si provoca questo riflesso di orientamento consiste nell’inserire, in un progetto normale, un elemento inusuale, inatteso e fuori luogo, capace di interrompere l’equilibrio del modello musicale.

Talvolta la discrepanza tra l’indice ed il modello è tale che provoca incomprensione e persino rifiuto del messaggio.
Il riflesso di orientamento si può ottenere con un semplice mutamento di scala.

Simbolo

Il simbolo è un segno il cui carattere è di essere una regola che determina il suo interprete obbligandolo ad un preciso comportamento.

Nel linguaggio verbale, come nel linguaggio musicale, i simboli significano possibilità comportamentali generali: essi sono normativi e si rivolgono a tutti i soggetti, codificando le modalità esecutive all’interno di un sistema.

La differenza tra simbolo ed icona sta nell’avere, il primo, valore di norma generale, la seconda di essere sempre riferita al caso particolare.
Il simbolo come significante di un significato che non è attualmente presente, cominciò ad essere usato come referente di ciò che non è visibile, perché è lontano, o non esiste più, o è oltre la vita.

Ciò avvenne particolarmente sotto l’influenza dell’estetica romantica e permeò quasi per intera la musica europea nella seconda metà dell’ottocento, sino ai primi del novecento.

Di questa forma di simbolismo musicale sono numerosi gli esempi da Wagner in poi. Ma non mancano tentativi di rintracciare una simile simbologia nelle composizioni settecentesche ed in quelle medievali, soprattutto nelle composizioni liturgiche e nelle messe.

E’ oramai definitivamente accettato dai più che canti sopra il rigo, voci bianche, arpeggi ascendenti siano considerati simboli di ciò che trascende l’uomo e suscitino, in chi ascolta, sentimenti estatici.

Scale musicali ascendenti siano il simbolo della luce, mentre scale discendenti siano simboliche della caduta e, quindi, per traslato, degli inferi; composizioni senza una precisa melodia che emerge sul fondo possono simboleggiare il caos iniziale mentre la semplice struttura A-B-A di una composizione musicale, con tutte le variazioni che essa accetta, è simbolica di stabilità, in equilibrio, e, in ultima analisi, del vivere in un mondo conosciuto e ordinato, che era, poi, l’aspirazione della cultura classica.

Ed è pertanto misura prudenziale attendersi, in una analisi del comportamento musicale come linguaggio, al significato originario, giuridico e concreto del vocabolo simbolo.




Pragmatica

Compito della pragmatica è lo studio delle relazioni che intercorrono tra i segni e le persone che li utilizzano. Questo studio comporta da un lato la conoscenza delle leggi grammaticali, sintattiche e semantiche concrete, giacché (per discutere in modo adeguato il rapporto dei segni con i loro interpreti, bisogna conoscere il rapporto dei segni fra loro e con quelle cose alle quali essi rimandano gli interpreti stessi) dall’altro l’analisi delle occasioni in cui quel sistema di segni viene utilizzato. Da un lato, quindi, studio della chiave interpretativa, dall’altro conoscenza del contesto in cui la chiave si usa.

Peirce e Morris distinguono l’interprete dall’interpretante: interprete è l’organismo cui il segno è diretto, interpretante è “un abito che l’organismo ha”.

Mentre l’interprete può essere sempre lo stesso, l’interpretante può mutare a seconda del sistema di segni che viene utilizzato durante la comunicazione. L’interprete costituisce una struttura di decodificazione dei segni che non è data “dall’immediata reazione fisiologica evocata dal veicolo segnino” né dalle “immagini ed emozioni concomitanti”, bensì ad habitus, un abitudine o un apprendimento, che consentono all’organismo di “rispondere per via del veicolo segnino ad oggetti assenti, i quali giocano in una situazione problematica presente come se fossero presenti essi stessi”.

L’esistenza di una pragmatica musicale sembra sufficientemente provata dall’abitudine che hanno talune persone di riunirsi in una sala per fare musica, ascoltare e discutere prodotti musicale.

Questa ritualità, non esclusiva nel mondo occidentale rispecchia le possibilità della pragmatica musicale.

Accettare ciò significa accettare l’idea che le persone riunite, in una sala o in uno spazio entro la giungla, siano interpreti di un prodotto la cui decodificazione richiede l’esistenza, in ciascuno di essi, di un medesimo interpretante e, quindi, di un medesimo habitus mentale.

Si potrebbe dire che andare ad un concerto ciascuno indossa il proprio interpretante così come un tempo indossava l’abito di società.

E tutto ciò prova, al di fuori di ogni dubbio, come l’interpretante sia il risultato di un apprendimenti e rispecchi, nella propria struttura, leggi ed abitudini delle concrete situazioni storico-culturali.

L’assenza, in un interprete, di un interpretante è la ragione della sua sordità ad un genere di musica e del suo essere fuori della comunità musicale che invece ne fa uso.

E’ in virtù di quanto una comunità musicale ha raggiunto che l’individuo, potendo attingere a quel patrimonio, perché partecipa di un comune sistema di segni, è in grado di formarsi un io ed una mente musicali. In questa parziale parafrasi della proposizione di Morris è da riconoscere il vero significato della funzione pragmatica di un sistema di segni.

L’io e la mente musicali non vanno tuttavia confusi con il possesso di abitudini musicali.


Contesto

Il modo in cui agisce la musica direttamente sul sistema nervoso, inducendo rilassamenti e tensioni, costituisce tuttora uno di quei problemi attorno a cui la scienza non è riuscita a far luce.

“La musica è il solo linguaggio in grado di parlare un tempo alla testa ed alle gambe”.

Che il linguaggio musicale, come quello vocale, non sia immutabile ma si evolva seconda meccanismi trasformazionali ampiamente dipendenti dalla cultura e dal progresso è verità pragmatica, quindi, oltre che logica e storica.

Adattandosi alle circostanze il linguaggio musicale si evolve elaborando sintassi e semantica secondo modalità generative tipiche delle inventiva umana. E’ per questo motivo che il valore di verità del segno musicale va cercato essenzialmente nel contesto, nella occasione e nella intenzione di chi lo usa. Il che, per parafrasare ancora Morris, porta alla conclusione che la verità musicale sia essenzialmente una verità pragmatica e non semantica.

***

Da tutto ciò che è stato detto precedentemente si evince che per essere un linguaggio, e di conseguenza un linguaggio comprensibile, la musica deve obbedire a precise regole tra cui un esempio può essere la tonalità e l’atonalità.

Tonalità e atonalità

Parlando di musica come linguaggio è d’obbligo soffermarsi ad analizzare i modi attraverso cui essa può esprimersi, ovvero la tonalità, se consideriamo quel tipo di musica scritta in Occidente a partire dal XVI sec. e la serie, che si afferma con Schönberg all’inizio del Novecento.

Molti sono i compositori che hanno cercato di formulare una definizione di tonalità.

La tonalità è l’insieme dei fenomeni che l’intendimento umano riesce ad apprezzare nel confronto diretto con un fenomeno costante, la tonica, assunto come termine invariabile di paragone.

Riemann, dice:
“La tonalità è il significato particolare che gli accordi acquistano dalla loro relazione con un accordo principale, la tonica”.

Schönberg infine, afferma:
“La tonalità è l’arte di combinare i suoni mediante successioni ed armonie – o successioni di armonie –, affinché la relazione fra tutti gli elementi in rapporto a un suono fondamentale sia possibile”.

In tutti questi approcci l’importante è che il rapporto con un centro implichi una gerarchia.

È la tonalità infatti, a garantire la connessione dei vari elementi di una forma musicale; dove appaiono nessi complessivi che superano i singoli accostamenti degli accordi, dobbiamo sempre riferirci ad essa.

Va inoltre ricordato che la musica si realizza nella dimensione del tempo.
La cadenza tonale conferisce all’episodio musicale la possibilità di passare a concatenazioni, giustapposizioni, articolazioni, in profondità ancora sconosciute, che armonizzano con le leggi biologiche della natura umana. Non sarebbe errato affermare che la tonalità agisce su di noi come una legge naturale che si realizza nell’anima, nella sensibilità umana.

Consideriamo ad esempio, il fenomeno di tensione e distensione cui sottostà la stessa vita organica che si svolge nel tempo. La distensione che precede, condiziona e dà misura a qualsiasi forma di tensione, viene realizzata appieno dalla musica solamente mediante la tonalità.

Furtwängler è del parere che solo la tonalità è in grado di rendere in modo oggettivo e reale lo stato di distensione, perché dispone dell’elemento determinante: il naturale archetipo di accordo, ovvero la triade maggiore.

Questa ha due funzioni dalle quali deriva la distensione.
Essa è o un principio o un termine, quindi contiene implicitamente una determinazione di luogo: in un’opera interamente compenetrata da vero sentimento tonale, l’ascoltatore sa sempre a che punto, rispetto al tutto, esso si trova.

Essa è autosufficiente: può durare in eterno.

Sulla base statica dell’accordo perfetto si eleva nella musica tonale la cadenza. Dalla distensione si origina la tensione, ed infine, seguendo le leggi da cui nasce, torna al punto di partenza, sulla cosiddetta tonica. Tensione e distensione si alternano in intimo rapporto reciproco.

Quanto più riposanti e perfette saranno le distensioni, tanto più intense si faranno le tensioni che da esse derivano.

Nonostante il grado di esaltazione, che può giungere ai limiti estremi della sensibilità umana, da ogni grande opera di musica tonale sgorga una quiete profonda e immutabile – così la definisce Furtwängler -, quella “quiete nel movimento” che è invece assente nella musica atonale.
Quest’ultima è in preda ad una multiforme mobilità, ad una profonda inquietudine che non trova requie; in breve, essa fallisce alla creazione di un divenire.

Ruwet afferma:
”Senza dubbio le sonorità sono sovente assai belle, prese in se stesse. Ma, valida come sfondo sonoro, come decorazione, questa musica fallisce nella creazione di un linguaggio autonomo.
Tutto accade spesso come se essa ricadesse nello stadio indifferenziato della pura natura, come se essa rinunziasse a creare un linguaggio, una storia”.

La critica di Ruwet parte dall’osservazione che la musica seriale, assai complessa in via di principio, nel progetto del compositore, appare semplicistica all’ascolto; cito le sue parole:
“…questi urti reciproci di blocchi sonori, questi perpetui salti di registro, queste variazioni ritmiche infime, creano in definitiva una musica che addobba, ma dove non succede nulla…”.

Egli spiega le ragioni di questa incongruenza ipotizzando una similitudine strutturale tra il linguaggio verbale e quello musicale.
Rifacendosi infatti a Trubeckoj, secondo il quale il sistema linguistico verbale sarebbe
“un insieme di sistemi parziali”, Ruwet dice che anche quello musicale può essere considerato un “sistema di sistemi”, laddove i vari sottosistemi sono rappresentati dai differenti parametri sonori.

Ma se normalmente in un sistema linguistico i vari sottosistemi stanno in rapporti “complessi, di implicazione mutua, di complementarità, di compensazione”, il caso della musica seriale sarebbe diverso.
L’aver organizzato ciascun parametro (altezza, durata, intensità, timbro, modo di attacco) parallelamente agli altri secondo l’identico principio della serie, non avrebbe significato altro per Ruwet che
“perder di vista le mutue implicazioni dei diversi sistemi”.

Sarebbe stata tale trascuratezza, poi, a trasformarsi sul piano fenomenico in una generica monotonia del continuum sonoro: l’enorme numero di opposizioni, dapprima volute fra elementi troppo vicini gli uni agli altri perché possano essere percepite dall’ascoltatore o in seguito pretese da termini troppo distanziati perché appaia chiaramente una base di comparazione, le differenze d’intensità, che non coincidono con quelle di durata, la totale assenza di regolarità ritmica, hanno condotto alla caduta nel regno dell’indifferenziato.

Ed è questa la ragione del fallimento della musica atonale.

A supporto di questa tesi basta pensare al rifiuto (o comunque al primo approccio molto negativo) da parte del pubblico di gran parte della musica contemporanea: venendo infatti a mancare allo sviluppo armonico l’indispensabile struttura armonico-melodica, esso perde il suo valore intrinseco, e a nulla servono i difficoltosi passaggi tecnici e le svariatissime complicazioni ritmiche; con ciò esso perde la chiave d’accesso all’anima dell’ascoltatore.

Furtwängler sostiene in proposito:
“Ogni arte che rinuncia al totale aspetto di umanità – deviando verso il particolare, la specializzazione, il mero caratteristico e il caricato virtuosismo (è il caso della cosiddetta arte standard) – è facile, qualsiasi forma essa assuma. Essa non interpreta e non rappresenta mediante valori spirituali umani, non parla col cuore, ma solo con l’intelletto e i nervi … tutto ciò che puramente meccanico si ottiene con adeguato esercizio.
La vera potenza creativa, la vera arte, non ha nulla a che fare con la pura esercitazione tecnica”.

Si direbbe che la musica atonale non si preoccupi gran che della personalità dell’ascoltatore, come soggetto autonomo; esso si trova al cospetto di un mondo strapotente e caotico.

Tuttavia non si possono negare le difficoltà che Schönberg si è trovato di fronte dovendo rinunciare alle relazioni tonali, ovvero l’unico mezzo di collegamento avente una forza sufficiente per ricondurre gli elementi musicali ad un comune denominatore.

Occorre infatti sottolineare l’ambiguità della nozione di serie: essa come afferma Nattiez, deve da sola sostituire due componenti di un’opera tonale, la scala dei riferimenti e il materiale tematico.
Il problema però è che la serie non organizza che altezze: le sue caratteristiche ritmiche, fraseologiche, dinamiche non possono che provenire dallo stile tonale.

E siamo così nuovamente ritornati al punto centrale della questione: l’atonalità che pretende di affermarsi come un progresso sulla tonalità, come una liberazione ed espansione oltre i rapporti troppo ristretti delle leggi tonali, deve fare i conti con il fatto che la musica in quanto sistema di comunicazione perché sia efficace deve sempre obbedire alle regole che rendono possibile il suo funzionamento.

L’ordine tonale – e concludo con una frase del grandissimo direttore d’orchestra E. Ansermet – è ciò che rende il linguaggio musicale comprensibile, svolgendo la stessa funzione della sintassi nei confronti delle parole, mentre la musica atonale, al contrario, utilizza un linguaggio oscuro e vago, senza sintassi e lasciando spazio per qualsiasi interpretazione”.


Il linguaggio dell’indicibile

“…il senso del sistema verbale e quello del sistema musicale sarebbero identici… ma essi lo direbbero diversamente, l’uno sotto il suo aspetto discorsivo, razionale, l’altro sotto il suo aspetto irrazionale”.
(B. de Schloezer)

Mi capita spesso, interpretando o semplicemente ascoltando una composizione musicale, di sentirmi un pò “Alice nel paese delle meraviglie”, smarrita in un regno incantato e misterioso, a volte luminoso, vivace, variopinto, a volte tenebroso, inquietante, oscuro, ma pur sempre al confine fra aldiquà e aldilà, tra tempo ed eternità.

Scrive Tieck:
“La musica opera il miracolo di toccare in noi il nucleo più segreto, il punto di radicamento di tutti i ricordi (…) simili a semi stregati, i suoni prendono radici in noi con una rapidità magica (…) in un batter d’occhio percepiamo il mormorio di un boschetto di fiori meravigliosi”.
E Novalis:
“Nel fogliame degli alberi, la nostra infanzia e un passato ancora più remoto si mettono a danzare un girotondo gioioso (…). Ci sentiamo fondere dal piacere fino all’intimo dell’essere, trasformarci, dissolverci in qualcosa per cui non abbiamo né nome né pensiero”.

Sarebbe facile moltiplicare le citazioni.
Ciò conferma un’opinione largamente diffusa, che appartiene all’esperienza immediata dell’ascolto musicale: essere la musica una realtà di forte impatto emotivo ma nella sua essenza intima e non descrivibile se non in modo indiretto, allusivo e in definitiva insoddisfacente.

Questa peculiarità è in genere associata alla cosiddetta asemanticità del linguaggio musicale, che non è organizzato secondo la dicotomia di significante e significato:
“ Le strutture sonore non sono inventariabili in un vocabolario” (Cano), e la musica si presenta quindi come un linguaggio aconcettuale. Come ha scritto Claude Lévi–Strauss, “fra tutti i linguaggi, solo la musica riunisce i caratteri contraddittori d’essere a un tempo intelligibile e intraducibile (…) il suo privilegio consiste nel saper dire quello che non può esser detto in nessun altro modo”.

Occorre pertanto riconoscere alla musica una funzione di testimonianza: quella di una voce che in sé stessa addita l’infinita, l’indicibile ricchezza di ciò che non è stato ancora colonizzato dal logos.

“Quando le parole non bastano più, sono i suoni a parlare”, scrive Grillparzer, intento a rivendicare la dignità autonoma della musica sul linguaggio discorsivo della ragione; si tratterebbe invece di “melodia e armonia ordinate mediante il ritmo e un certo tempo e organizzate dal compositore in suoni” secondo E. Ansermet.

Egli sostiene infatti che “i suoni non significano di per sé nulla; al di là dell’evento musicale, essi vengono impiegati come segnali, richiami, come fenomeni, cioè, privi di autonomo significato”. Ed anche Kurth scrive: “il suono in sé non è niente di musicale: solo la sua assunzione a livello psichico lo rende tale”.

La musica pertanto, analogamente al linguaggio, che è costituito da strutture verbali messe in luce dall’oratore o dallo scrittore attraverso la parola parlata o scritta, è “immagine” – sempre secondo Ansermet – comunicata unicamente attraverso l’esecuzione che permette di legare, modellare e accentuare i suoni in un determinato modo.

Attraverso le note sono rivelati dei percorsi, dei movimenti che determinano un certo spazio temporale nel quale siamo trasportati a esistere come in un tempo immaginato.

Per comprendere veramente cosa sia una melodia – prosegue Ansermet – è necessario intenderla come un “cammino”, come una traiettoria che ha per punto di riferimento la dominante; la musica infatti è moto emozionale, attività trascendente, perché chiunque l’affronti (il compositore, l’interprete che dà vita alle intenzione dell’autore o l’ascoltatore che rivive l’emozione che diede origine all’opera d’arte) si tratta sempre di lasciare trasparire dai meri suoni l’oggetto immaginario che trascende la musica stessa ma ne è, contemporaneamente, contenuto e di afferrare l’oggetto “affettivo” al di là della contingenza dei suoni.

In una sola parola, la musica è Erleibnis, ovvero “esperienza vissuta”, cioè esperienza compiuta dall’uomo prima che egli si soffermi a riflettervi; quest’ultima fase avviene solo quando il fenomeno musicale si è già svolto.

Si può affermare che questa esperienza si definisce nel momento in cui melodia, armonia, ritmo e forma si presentano alla coscienza dell’ascoltatore in una simultaneità e successioni di suoni; è in questo modo che può avvenire la comunicazione tra autore e ascoltatore, tra colui che, dettato dal sentimento, fissa l’evento musicale nei suoni e colui che deve riprodurlo mediante la propria sensibilità.
In fase di ascolto infatti – precisa Ansermet – è l’attività di sentimento che spiega il percorso tonale, nonostante si creda che sia quest’ultimo a produrre in lui un “sentimento vissuto”.

Non dobbiamo dimenticare che la musica è evento interiore, puramente psichico; autore e ascoltatore contribuiscono a illuminare le linee melodiche di un significato affettivo per il fatto stesso che leggono tale significato tra le righe del percorso melodico.
Nell’ "atto musicale essi sono, contemporaneamente".

La definizione affettiva di musica è di grande importanza per il nostro argomento, poiché è la componente espressiva e sentimentale dell’opera d’arte che giustifica, per quanto riguarda in particolare gli studiosi di estetica musicale, il ricorso al concetto di simbolo.

Il musicologo e psicologo francese Michel Imberty ad esempio è del parere che la musica sia essenzialmente una simbolica del tempo, cioè che gli stili musicali siano la rappresentazione simbolica del vario atteggiarsi dell’esperienza esistenziale del tempo e della sua connaturata ambivalenza, come “luogo di vita in cui si elaborano i progetti personali o collettivi più esaltanti e in cui però ogni passo che si compie conduce inesorabilmente al termine fatale”.

Più di ogni altro, è Vladimir Jankélévitch a sostenere con appassionata eloquenza la funzione simbolica della musica, intesa da Paulus come la “capacità di rappresentare l’assente”.

La sua riflessione sulla musica è infatti tutta giocata sul rapporto tra assenza di significati referenziali e inesauribilità ermeneutica, nel senso che l’insignificanza è condizione di tale inesauribilità.

Egli da un lato rivendica l’assoluta concretezza ed evidenza dell’esperienza musicale ed esclude che essa possa esprimere qualcosa di definito, dall’altro riconosce alla musica la capacità di ospitare, nella sua infinita ambiguità, una ricchezza di senso non altrimenti dicibile.

In conclusione, lo stretto collegamento tra musica e simbolo è reso possibile dalla vaghezza del linguaggio musicale e dalla sua polisemia, che rende impossibile stabilire tra significante e significato una relazione biunivoca.

In ogni caso, l’attribuzione alla musica di un’essenza segreta, di un linguaggio simbolico, portatore cioè di una nebulosa di significati non altrimenti dicibili e a forte connotazione emotiva, la radica definitivamente nei dominii dell’inconscio e la fa metafora di tutto ciò che è totalmente estraneo al linguaggio verbale.

Parlarne rappresenta un tradimento; esporsi alla sua luce ci mette nella condizione di essere svelati a noi stessi.

La musica è allora come una porta che si apre su un’oscurità animata.


CONCLUSIONE



Viviamo le nostre vite sospesi tra i confini della natura e della cultura …
La musica è al centro, in quello spazio paradossale tracciato dalla nostra anima, che rende possibile la comunicazione di tutte le cose, pur sottraendola, per il suo coincidere con una trama sonora retta da leggi, al limite della pura pulsionalità.



Hieronymus Bosch - Il concerto nell'Uovo.




Bibliografia

Musica e Psicologia – M. Lostia, Ed. Franco Angeli

Dialoghi sulla Musica – W. Furtwängler, Ed. Curci, Milano

Scritti sulla Musica – E. Ansermet, Ed. Curci, Milano

Linguaggio, Musica, Poesia – N. Ruwet, Piccola Biblioteca Einaudi

Musica e Psiche – A. Romano, Ed. Bollati-Boringhieri

Musicologia Generale e Semiologica – Nattiez, Ed. EDT

Il Discorso Musicale – Nattiez, Ed. Einaudi

UTET – Dizionario Enciclopedico (voce: Linguaggio)

Garzantina della Musica (1999), Ed. Garzanti

Elementi di semiologia - Barthes, Ed. Einaudi

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