Letture
Musica e stati alterati di coscienza: una questione ancora aperta

Seminario internazionale di studi - Fondazione Cini - Venezia - 24 - 26 gennaio 2002

Un'associazione sistematica tra musica e stati transitori di alterazione delle attività psichiche (trance, estasi, sdoppiamento o sovrapposizione di personalità, visione, 'viaggio' mistico, ecc.) è riscontrabile alle più diverse latitudini, nei riti a sfondo terapeutico e religioso di molte culture e società tradizionali. Essa costituisce tuttora un tratto caratteristico dei cosiddetti culti di possessione africani e mediterranei, dello sciamanismo euroasiatico e amerindiano, delle pratiche devozionali della mistica islamica e anche di alcuni nuovi riti cristiani.

Già rilevata da Platone e Aristotele, questa singolare relazione fra musica e stati non ordinari di coscienza è divenuta oggetto di particolare attenzione soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, a seguito di approfonditi studi antropologici e storico-religiosi sulle tecniche e le religioni "estatiche" (Eliade, Bastide, Lewis ecc.), suscitando anche un certo interesse di massa grazie alla particolare diffusione di alcune ricerche, come quelle di De Martino (e Carpitella) sul tarantismo pugliese o di Métraux sul voduhaitiano.

Sui cosiddetti ASC (Altered States of Consciousness) e le varie relative "tecniche del sacro" si è sviluppato un acceso dibattito anche in ambiti neurofisologici, psicoantropologici ed etnopsichiatrici (Neher, Ludwig, Tart, Prince, Bourguignon, Zémpleni, ecc.), mentre sulla questione più specifica delle potenzialità della musica nell'induzione di condizioni estatiche o di trance fondamentale si è rivelato il contributo dell'etnomusicologia; in particolare, il noto saggio di Gilbert Rouget su "Musica e trance" (1980) ha proposto una classificazione dei vari fenomeni avanzando precise ipotesi sui rispettivi ruoli che musica, danza, rito e finalità terapeutiche giocano nello "strano meccanismo" dei riti di possessione.

Per alcuni anni, anche a seguito dello studio di Rouget, la discussione scientifica sui rapporti fra musica e stati non ordinari di coscienza è stata molto vivace e ricca di contributi, ma nell'ultimo decennio il dibattito si è progressivamente attenuato, lasciando aperti non pochi interrogativi circa l'effettivo "potere" - puramente emozionale e comunicativo o anche psicofisiologico - della musica all'interno dei vari dispositivi terapeutici e religiosi tradizionali.

Paradossalmente, però, le questioni sollevate si sono riverberate al di fuori degli ambiti scientifici, favorendo indirettamente un proliferare di nuovi fenomeni: dallo sviluppo di particolari tecniche terapeutiche con musica, quali ad esempio la "respirazione olotropica" sperimentata a partire dagli anni '70 dal medico praghese Stanislav Grof in California, a un interesse crescente delle nuove generazioni occidentali per alcune pratiche coreutico-musicali tradizionalmente connesse alla trance o all'estaso, come ad esempio quelle dei rituali gnawa del Marocco, dei dervisci Mevlevi turchi o del tarantismo pugliese, attualmente oggetto in Salento di un singolare quanto problematico revival .

tratto da: http://www.cini.it/fondazione/03.istituti/iismc/eventi/asc2002.htm


Il sacro

di Marcello Massenzio

A partire da Otto (Rudolf Otto - Il Sacro - Feltrinelli 1966 è un testo fondamentale - ndr) c’è il riconoscimento del sacro come qualcosa di assolutamente irriducibile ad altro, perchè il sacro è il "ganz Anderes", l’alterità radicale. Nel sacro si consuma dunque l’esperienza dell’altro, l’esperienza di una alterità che è assolutamente al di là del quotidiano. L’alterità del sacro, nella visione di Otto, è una alterità ontologicamente pensata e agisce sull’uomo o afferrandolo -coinvolgendolo appunto in una esperienza fascinosa- oppure atterrendolo. Il sacro si esprime secondo le polarità antitetiche del tremendum e del fascinus.

A partire da questo momento, inizia nella cultura contemporanea una discussione sul sacro come qualcosa che ha un proprio ambito, una propria sfera d’azione, un proprio statuto. A questo riconoscimento contribuiscono la storia delle religioni, l’etnologia religiosa, la nuova consapevolezza dell’importanza del religioso mediata attraverso la conoscenza di culture "altre". Questo è un dato di estremo interesse. E’ proprio la conoscenza di altri orizzonti culturali che ci rende consapevoli dell’enorme importanza del fenomeno "religione" (fenomeno che nella nostra cultura, proprio nella fase compresa tra la seconda metà del secolo scorso e gli inizi di questo secolo, subiva invece una profonda crisi). Il concetto di religione, che noi possediamo, è un concetto che appartiene alla nostra cultura, alla nostra tradizione, e che è stato forgiato in funzione del cristianesimo.

Non è esportabile perciò al di fuori del nostro contesto culturale. Se ci poniamo il problema di un concetto di religione che debba tener conto della molteplicità delle religioni, allora dobbiamo riconsiderare il nostro concetto che è inadeguato ad essere chiave di lettura di altri fenomeni, di altre religioni, che non siano riconducibili all’orbita del cristianesimo. Per cui c’è un grande sforzo intellettuale teso a pensare in chiave universalistica il concetto di religione.

[...]

Se appunto si parte dal presupposto che i valori religiosi sono valori storici, si deve, di conseguenza, prendere atto in maniera coraggiosa che i prodotti storici possono anche non avere più riconosciuta la loro funzione, e come tali essere messi da parte. Quindi anche il perché si forma un processo di pensiero che porta anche a mettere fra parentesi il dominio della religione, è un tema di grandissimo interesse storico - religioso. La morte, per chi resta, la morte per chi perde un congiunto è l’occasione più clamorosa di crisi, dove il perdersi veramente è una realtà che sta proprio nel concreto dell’esperienza.

La vicenda della morte non può essere vissuta nella sua immediatezza, perché troppo forte, troppo sconvolgente: bisogna velare perciò la realtà della morte. Velare la realtà della morte, significa destorificarla. Allora comincia un lavoro di trasposizione dell’accadimento reale dal piano oggettivo al piano simbolico. Chi resta deve a poco a poco rapportarsi non tanto al morto reale, ma a un morto ideale, perché in questo modo il legame con quel particolare morto viene appunto ad essere meno forte, meno incisivo, e quindi la perdita di quel legame diventa meno straziante. Il primo passaggio è appunto questa spersonalizzazione del morto e il ricorso a dei modelli di comportamento.

Quando succede una morte, si fa così; quale che sia il mio particolare grado di emozione, quali che siano le mei reazioni affettive, io devo comportarmi come hanno fatto gli altri. C’è una regola fissa, impersonale, che rende molto stilizzato il mio comportamento e lo purifica di tutte le mie insorgenze personali, e mi pone perciò al riparo dalle mie emozioni che potrebbero portare a perdermi. Questo trasferimento del morto sul piano simbolico e delle mie azioni sul piano delle stereotipie simboliche, hanno la funzione di raffreddare, per così dire, una vicenda così sconvolgente, e di poterla guardare quasi in una dimensione di sogno, senza esserne veramente colpiti. Si può guardare la morte senza esserne scioccati, senza il rischio di perdersi perché si è ancorati la propria presenza a qualcosa che è in grado di reggerla.

[...]

Bisogna rinnovare la conoscenza di se stessi, mettendosi a confronto con gli altri e problematizzandosi in rapporto agli altri. Bisogna andare verso gli altri per poterli conoscere, ma alla fina bisogna tornare a se stessi per poter mettere in causa il processo di formazione delle categorie attraverso le quali noi operiamo. E’ una forma di attività conoscitiva che ha due versanti: da un lato c’è l’altro, dall’altro lato ci siamo noi che ci conosciamo e che ci riconosciamo dietro lo stimolo della percezione positiva dell’altro.

Tratto dall'intervista: "Il sacro fra storia e fenomenologia" - Roma, DEAR, 10 febbraio 1997
http://www.emsf.rai.it/tv_tematica/trasmissioni.asp?d=378


L’etnologia e lo studio transculturale degli stati di coscienza

Fabrizio Speziale
Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 21, gennaio aprile 1994

Una precisa e adeguata individuazione degli ambiti metodologici e di contenuto della disciplina etnopsicologica, in riferimento specifico allo studio transculturale degli stati di coscienza, assume la forma di un processo di computazione, cioè: un pensare insieme le cose (Foerster, 1987), che esprime la complessa prospettiva interdisciplinare che sottende tale definizione degli ambiti di una disciplina di confine come l'etnopsicologia. Aspetto primo di tale processo è l'affermazione della centralità della coscienza e della varietà dei suoi stati per la psicologia, e per i quali si propone una metodologia di studio transculturale.

La prospettiva transculturale precisa una dimensione di analisi di certe società e culture tradizionali in cui gli stati non ordinari di coscienza di estasi e trance (1), vengono abitualmente e abbondantemente usati, con una funzione esplicitamente terapeutica, in contesti definiti dallo sciamanismo e dalle religioni estatiche. E una volta acquisito definitivamente il ruolo della coscienza quale oggetto primario della psicologia - acquisizione recente ed epistemologicamente tutt'altro che indolore - si rivela l'importanza della disciplina etnopsicologica per la psicologia generale tutta, in virtù della sua capacità di restituirci l'autenticità di quella dimensione di conoscenza e di esperienza che è la naturale tendenza dell'uomo ad esperire le diverse forme della sua coscienza.

Tale individuazione etnopsicologica vorrebbe poi prestarsi anche ad una lettura più ampia, avere una sorta di struttura a doppia entrata e cioè: essere non solo una considerazione psicologica di alcuni fenomeni antropologici, ma anche offrire a un ambito di studi etnologico, definitivamente consapevole dell'insufficienza di un riduzionismo psichiatrico e psicoanalitico, basato sull'uso più o meno appropriato del vocabolario psicopatologico, un modello interpretativo sufficientemente aperto, complesso e articolato, tale da cogliere la ricchezza del fenomeno che si vuole osservare. In primo luogo è quindi opportuno chiarire la relazione che la disciplina etnopsicologica intrattiene con l'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi.

Etnopsichiatria ed etnopsicoanalisi
Prodotto fondamentale dell'incontro della materia antropologica con la psichiatria e la psicoanalisi è la riduzione delle religioni estatiche, sciamanismo e finanche le stesse culture che li esprimono, tutte intere, a veri e propri manicomi istituzionalizzati per primitivi. Nella letteratura etnopsichiatrica estasi e trance diventano cosi variamente sinonimi di isteria, nevrosi, psicosi, epilessia o schizofrenia (per rassegna completa di questi studi si veda Eliade, 1974 e Lewis, 1972). Ma la legittimazione teorica più significativa dell'uso del riduzionismo psicopatologico, è operata dall'etnopsicoanalisi.

Elemento centrale di tale legittimazione è la famosa "equazione di identità" di Freud fra bambino = nevrotico = primitivo (Freud, 1953), le cui vaste implicazioni verranno poi sviluppate da Roheim (1972) e Devereux (1978). Muovendo dalla tesi di Roheim dell'unità psichica dell'umanità che sancisce la validità metaculturale e universale dell'analisi psicoanalitica delle culture, Devereux afferma che la psicosi dello sciamano non è in realtà altro che la manifestazione di una struttura psicopatologica che sottende tutta l'organizzazione delle società tradizionali.

Nonostante numerosi etnologi e storici delle religioni (Eliade, 1974; Rouget, 1986; Lapassade, 1980; e Lewis, 1972), abbiano radicalmente rimesso in discussione la fondatezza dell'analisi psicopatologica, questa rimane ancora largamente diffusa e spesso l'unico strumento interpretativo della teoria antropologica delle religioni estatiche di psichiatria e psicoanalisi.

E così, a questo punto, essenziale chiarire come una adeguata individuazione dell'etnopsicologia, debba passare imprescindibilmente attraverso l'affermazione della completa inadeguatezza del riduzionismo psicopatologico a svolgere un'analisi interculturale degli ASC riduzionismo psicopatologico che un'adeguata esplicitazione dei presupposti epistemologici che lo sottendono inevitabilmente riduce a una costruzione proiettiva ed etnocentrica.

Ciò non significa negare l'esistenza del disagio mentale presso altre culture, ma notare semplicemente, come diceva Maslow, che se il solo strumento che hai è un martello allora tutto comincia ad assomigliare ad un chiodo. Gli ASC, l'estasi e la trance non hanno, all'interno delle teorie etnopsichiatriche ed etnopsicoanalitiche, diritto ad alcun rilievo concettuale autonomo, ma devono essere ricondotte a un modello esplicativo altro, che ne offre una spiegazione principalmente nei termini della scelta di dove tali comportamenti debbano essere situati all'interno di un continuum normalità-patologia; dando poi per scontata l'assenza di dubbi a proposito della scelta di tale collocazione.

Ed è possibile rilevare una difficoltà intrinseca dei modelli etnopsichiatrico ed etnopsicanalitico a cogliere certi aspetti determinanti e culturali dell'estasi e della trance, dovuta essenzialmente alla non disponibilità nelle teorie psichiatrica e psicoanalitica di riferimento di categorie concettuali che offrano di tali fenomeni ipotesi interpretative alternative alla regressione e alla dissociazione dell'io - il martello di Maslow!

Fenomenologia dell'estasi e riferimenti epistemologici della disciplina etnopsicologica
Aspetto definitorio centrale del vissuto sciamanico, e oggetto privilegiato del riduzionismo psichiatrico, è la chiara tendenza dell'estasi a indurre una certa permeabilità dei confini dell'io che porta alla proposta dell'adozione di un modello etnopsicologico capace di cogliere la peculiarità di tale processo di superamento dei confini di sistemi psicologici, oltrepassando la controversia normalità-patologia. E più esattamente, offrendo delle religioni estatiche ciò che Geetz (1987) chiama una descrizione orientata rispetto agli attori; cioè una prospettiva etnopsicologica allargata che integri nella propria teoria i contenuti stessi che la conoscenza estatica realizza secondo il sapere tradizionale di queste società.

Ciò in etnopsicologia corrisponde a una ben precisa e consapevole riflessione epistemologica, il cui esito è l'elaborazione di un modello che, come dice Rorty (1986), assomiglia molto di più a "familiarizzarsi con il gergo dell'interlocutore, piuttosto che tradurlo nel nostro" e i cui presupposti sono da ricercarsi essenzialmente nella teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein (1967), nel costruttivismo antropologico di Vico (1816), in certe tesi (olismo, egualitarismo epistemologico) del relativismo epistemologico di autori come Feyerabend (1973), nel paradigma della complessità (Morin, 1989; Bocchi e Ceruti, 1985), nell'ermeneutica antropologica di Geertz (1987).

Alcuni esiti particolarmente rilevanti, di tali riferimenti epistemologici in etnopsicologia, sono: la considerazione della reintegrazione del ruolo dell'osservatore, formalizzata dalla transizione da una epistemologia dei sistemi osservati a una epistemologia dei sistemi osservanti (Foerster, 1987); la possibilità di ovviare a una riduzione dell'analisi interculturale a una costruzione proiettiva di realtà - come per l'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi - attraverso l'adozione di una modellistica descrittiva del tipo "come se" (Olivetti Belardinelli, 1974), che ci permetta di concettualizzare una data fenomenologia antropologica come un sistema complesso di parti interagenti, del quale diventa possibile descrivere parametri come lo stato di equilibrio, la relazione con l'ambiente, i meccanismi di riequilibramento; la rivendicazione del ruolo dell'interpretazione, dell'analogia e della metafora rispetto all'assoluta pretesa di oggettività della spiegazione causale del meccanicismo riduzionista.

Ciò che della fenomenologia estatica - come una descrizione orientata rispetto agli attori - emerge, in una tale prospettiva allargata, sono alcuni aspetti peculiari e determinanti qui di seguito:

  • a) L'estasi è una forma di conoscenza; dall'analisi dei contenuti di tale dimensione conoscitiva procedono b) e c).
  • b) La conoscenza estatica è una dimensione di superamento dei confini dei sistemi psicologici. Il viaggio estatico è una tecnica di comunicazione fra i diversi sistemi dell'ordinamento del cosmo.
  • c) il rituale estatico è un processo di reintegrazione all'interno di un ordine più vasto.
    Per quanto al punto a), nel definire l'estasi una forma di conoscenza non si fa altro che riconoscergli uno status che le società tradizionali affermano esplicitamente e anzi considerano una caratteristica fondamentale dell'esperienza estatica: "gli sciamani sono persone di conoscenza" (Hamer, 1980).

Una delle etimologie proposte per il termine sciamano deriva dalla radice tungusa "Sa", che significa appunto conoscere (Walsh, 1989). E partendo da una adeguata considerazione del rapporto fra estasi e conoscenza che può avviarsi una ridefinizione etnopsicologica del fenomeno, che superi la diagnosi di delirio allucinatorio e si soffermi invece sui contenuti di tale dimensione conoscitiva, la cui analisi ci permette di rilevare ulteriori aspetti contestuali dell'estasi, quanto ai punti b) e c).

Per quanto al punto c): la considerazione del rituale estatico come processo di reintegrazione all'interno dell'armonia del cosmo è un modello terapeutico largamente attestato e descritto compiutamente già da Platone per la mania dionisiaca. Come precisa Geertz si può considerare definitivamente acquisito il fatto che il rituale religioso "proietta immagini di ordine cosmico sul piano dell'esperienza umana..., ma non esiste la struttura teorica che ci permetterebbe di fornirne un resoconto analitico" (Geertz, 1987).

La possibilità di formalizzare tale aspetto fondamentale delle religioni estatiche, è un elemento fondamentale del modello etnopsicologico. Tale formalizzazione è essenzialmente una metafora del modello cibernetico dei sistemi ad autoorganizzazione, o più correttamente, come dice Morin, ad autoecoorganizzazione.

Secondo la definizione di Foerster(1987) un sistema autoorganizzatore è un sistema capace di incrementare nel tempo il proprio ordine; chiamando R l'unità di misura d'ordine ciò può essere espresso così: ~R/At>O.

Il suo utilizzo in questo contesto vuole essere un modo per formalizzare quell'aspetto dell'estasi sciamanica che è la capacità di ristabilire l'ordine delle relazioni fra gli uomini attraverso il riequilibriamanto dell'armonia del rapporto fra uomo e cosmo. Ciò che si vuole dire è che la conoscenza estatica dello sciamano svolge, rispetto al gruppo sociale di appartenenza, la funzione di un processo integratore d'ordine.
E questo equivale semplicemente alla considerazione di un certo sistema sociale, nel quale alcuni membri ritualizzano l'induzione di ASC, come un sistema capace di essere autocorrettivo in direzione del ristabilimento dell'ordine percepito dai suoi membri, e in cui tale alterazione rituale svolge il ruolo di servomeccanismo di tale processo di autoregolazione.

Per essere più chiari, l'analogia cibernetica è un modo per sottolineare alcuni elementi fondamentali, mediati all'interno del rito estatico, che sono: la percezione soggettiva di disagio e di benessere dei membri di un gruppo sociale; questi elementi sono il punto di partenza e il punto di arrivo di un processo nel quale il gruppo, attraverso alcuni suoi membri specializzati, attiva alcuni comportamenti di garantita efficacia per assicurare la transizione dal disagio percepito all'equilibrio, dal disordine all'ordine. La capacità dei membri specializzati di realizzare tale transizione attraverso forme non ordinarie di coscienza è una caratteristica fondamentale del processo.

Secondo Foerster, un vincolo dei sistemi autoorganizzatori è di trovarsi in perpetua interazione con un ambiente con ordine ed energia disponibili. Ciò permette di formalizzare alcuni ulteriori aspetti della fenomenologia estatica come descrizione orientata rispetto agli attori, e cioè il fatto che questa, come processo integratore d'ordine, funziona essenzialmente in virtù di una struttura cosmologica che garantisce un rapporto di continuo e molteplice scambio fra sistema individuale-sociale e ordine cosmico. L'estasi è una tecnica di comunicazione che permette una rottura di livello fra i diversi sistemi della struttura dell'universo nel suo centro: l'axis mundi (Eliade, 1974), viaggiando attraverso il quale lo sciamano può integrare ordine all'interno del sistema individuale sociale per assimilazione dal più vasto ordine cosmico.

Lo sciamano è un viaggiatore cosmico anche secondo Walsh (1990) che opera una rottura di livello fra le diverse zone del cosmo e il suo canale di comunicazione; una comunicazione illo tempore aperta a tutti gli uomini, ma ora prerogativa del viaggio estatico dello sciamano, che trasforma così un ideogramma cosmologico in un concreto vissuto esperienziale.

L'autoecoorganizzazione, come processo integratore di ordine nel sistema individuale sociale per assimilazione cosmica, può poi realizzarsi, come dice Morin (2), in virtù di una particolare forma di relazione inclusiva (relazione ologrammatica) che lega la parte e il tutto, l'uomo e il cosmo.

Secondo Pribram (1978): "in un ologramma non c'è un io opposto a qualcosa altro... noi abbiamo in noi stessi la rappresentazione del tutto... questo già è accaduto in certe esperienze religiose, ma è adesso destinato a diventare una esperienza scientifico-religiosa", che soprattutto ci consente di considerare "i resoconti verbali delle esperienze dei soggetti come dati".

È in virtù di tale relazione di ordine implicato, che per lo sciamano è un reale vissuto esperienziale, che le religioni estatiche celebrano la più ampia ecologia di un universo di partecipazione: "per lo sciamano tutto è sacro, interconnesso e interdipendente, tutte le creature sono parte di una grande rete della vita che mantiene le cose in armonia" (Walsh, 1990).

Una dimensione analoga a quella visione coesiva della terra, con tutto ciò che vi è sopra, come un solo e complesso sistema vivente, formalizzata recentemente dallo scienziato inglese Lovelock (1985) nell'ipotesi geofisiologica di Gaia.

Ciò che è opportuno precisare è che il senso dell'analogia cibernetica e sistemica qui proposta è quello di una metafora del tipo "come se" — "un congegno esplicativo che non contiene nozioni causali" (Foerster 1987) — da noi reificate.

Non un nuovo e gratuito riduzionismo, ma un modo per riflettere sul senso che certe categorie conoscitive ed esperienziali, da sempre presenti nel sapere tradizionale, stanno ormai inequivocabilmente acquistando nella scienza contemporanea (una riflessione, in riferimento alla tradizione buddhista e alle scienze cognitive recentemente operata anche da Varela, Thompson e Rosch, 1993).

Transculturale e Transpersonale
Quanto al punto b) e cioè che l'esperienza estatica sia una dimensione di superamento dei confini dei sistemi psicologici, ciò che più precisamente si intende è che l'estasi è essenzialmente una tecnica rituale attraverso la quale lo sciamano impara a trascendere i confini del proprio io; un processo espresso chiaramente nell'etimologia del termine estasi - ek-statis, uscire fuori.

Ciò che l'iniziazione estatica individua, è un ben preciso contesto di apprendimento; ciò che viene appreso in tale contesto è la capacità rituale di indurre ASC in cui trascendere gli abituali limiti della relazione organismo-ambiente, io-altro; qualcosa di analogo a ciò che Bateson (1976) chiama apprendimento 3, cioè, una dimensione di profonda ridefinizione di quella falsa reificazione che è il senso dell'io.

Ciò, in etnopsicologia, è stato recentemente precisato da Nathan (1990), secondo il quale l'efficacia terapeutica dell'estasi sciamanica è da ricercare proprio nella sua dinamica di indotta confusività dei confini dell'io."La trance in sé... è un profondo coinvolgimento del proprio io e al contempo un annichilimento di quello stesso io individuale" (Konner, 1985). Ed è particolarmente rilevante poter formalizzare più precisamente tale aspetto centrale della conoscenza estatica attraverso l'adozione del modello transpersonale della coscienza, quale adeguata concettualizzazione etnopsicologica del processo di superamento dei confini dell'io delle religioni estatiche. Un pensare insieme la più antica e la più recente forma di psicoterapia basate sull'intrinseco potenziale terapeutico delle forme non ordinarie di coscienza.

E interessante notare, per lo meno per il modo nel quale ciò è ignorato nella psicologia accademica italiana, che la concettualizzazione del transpersonale è uno dei più apprezzati contributi di rilievo internazionale che la cultura psicologica italiana abbia prodotto, nell'opera di Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi; il primo autore a individuare una ben precisa dimensionalità del transpersonale rispetto alla psicologia del profondo. Quella di Assagioli e del la psicologia transpersonale è fondamentalmente una teoria dello sviluppo integrale della personalità, che non nega i contributi della psicoanalisi, della psicologia dell'io, del sé o della teoria delle relazioni oggettuali, considerandoli altresì' modelli psicopatologici e psicoterapeutici adeguati ai livelli di sviluppo pre-personale e personale, ma afferma quella che è la naturale tendenza dell'uomo a superare tale livello, quello dell'io, per realizzare appunto lo sviluppo transpersonale.

Ed è rilevante notare, rispetto al suo utilizzo in etnopsicologia, come il modello transpersonale sia un prodotto esplicito dell'analisi interculturale con le psicologie orientali, una dimensione che esprime cioè, la concreta tendenza allo sviluppo di un modello integrale dell'uomo che sia veramente psicologico e non più la generalizzazione proiettiva di certi stereotipi occidentali, come nel caso dell'etnopsicoanalisi.

Ciò che per la psicologia tradizionale è il punto di arrivo, la cosiddetta normalità psichica e la costanza dell'oggetto, l'individuazione del sé o riassetto non conflittuale di impulsi e difese, ecc., secondo un modello integrale dello sviluppo può essere invece un punto di fissazione e di arresto.

Si tratta cioè di riconoscere che l'io non è altro che "sé e inesistenza del sé... la salute mentale e il completo benessere psicologico le presuppongono entrambi, ma in una sequenza evolutiva appropriata, (Engler in Wilber, Engler, Brown, 1986). Secondo questi autori il superamento dell'io ha come prerequisito indispensabile una sua precedente ben forte e differenziata individuazione: "prima di riuscire a non essere nessuno bisogna essere qualcuno" (Engler, ibidem).

L'introduzione del modello transpersonale in etnopsicologia ci consente di formalizzare definitivamente la differenza della dimensione transegoica dell'estasi sciamanica dalla interpretazione psicopatologica dell'etnopsichiatria, con la quale era stata confusa. Diventa cioè chiaro che nella schizofrenia l'assenza dell'io è un non raggiungimento, mentre nell'esperienza estatica tale assenza è un superamento volontario e trascendenza indotta, nella quale risulta la percezione "della mutua interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi" (Wilber, 1975).

Ciò di cui ci arricchiamo è la consapevolezza di una dimensione psicologica non riducibile ad una forma di regressione, ma essa stessa esperienza umana fondamentale, un elemento che le religioni estatiche, dell'uomo, da sempre affermano.

L 'Etnopsicologia
Ciò che nell'analisi transculturale ed etnopsicologica può essere chiaramente rimesso in discussione è la credenza che il nostro stato di coscienza ordinario sia in qualche modo normale e naturale; esplicitando definitivamente: "la natura costruttiva del nostro stato ordinario di coscienza" (Tart,1976).

Ogni cultura, infatti, struttura selettivamente certe possibilità delle esperienze della coscienza e le modella attraverso l'acculturazione; lo stato ordinario non è altro che un modo semiarbitrario di strutturare la coscienza, che facilita certe capacità adattive e inibisce lo sviluppo di altre potenzialità della coscienza umana. La rilevanza dello studio etnopsicologico degli ASC consiste appunto nella possibilità di cogliere tali potenzialità che gli stati altri rendono esperibili, come ben sanno le religioni estatiche.

Ciò che del resto stupisce in un'analisi interculturale diacronica e sincronica (all'interno della quale inserire anche e per prima la nostra stessa cultura), non è la presenza ma l'assenza di forme di alterazione della coscienza. E ciò stupisce ancora di più per il modo nel quale è stato sistematicamente ignorato da etnopsichiatri ed etnopsicoanalisti. L'alterazione rituale della coscienza è un'esperienza presente nel 90% delle società umane (Bourguignon, 1986) e può essere considerata parte del retaggio psicobiologico e precipuo bisogno di quell'"animale cerimoniale" che è l'uomo (Wittgenstein,1975).

Ed è anche per questo che il modello proposto non è una nuova, ma camuffata, forma di riduzionismo transpersonale, ma va invece in una direzione inversa a quella realizzata di solito da una metodologia riduzionista. Nel senso che bisogna riconoscere che mentre lo studio della coscienza e il riconoscimento della valenza terapeutica dei suoi stati altri è nella psicologia occidentale storia recente, le religioni estatiche ritualizzano terapeuticamente gli ASC da migliaia di anni (Peters, 1981), come risulta evidente dal divario fra la ricchezza terminologica del sapere tradizionale sugli stati di coscienza e la terminologia scientifica e nell'elevato livello di elaborazione e raffinatezza delle tecniche di induzione di ASC, rispetto alle quali metodologie occidentali come l'ipnosi risultano abbondantemente più grossolane.

E in virtù di ciò che si può cogliere l'estrema rilevanza dello sviluppo di modelli terapeutici integrati, vere e proprie contaminazioni interculturali di tecniche terapeutiche, come i lavori di Nathan in Francia, di Collomb a Dakar, di Lambo in Nigeria e di Coppo in Mali, veri e propri laboratori sperimentali di etnopsicologia (Nathan, 1990; Coppo, 1988).

E ciò che in una dimensione ancora più ampia si apre, è la possibilità di un approccio esperienziale, nello studio etnopsicologico degli ASC, che configura così l'etnopsicologia come una "scienza specifica a uno stato" (Tart, 1976). E questa una prospettiva largamente esplorata in meditazione e che solo recentemente ha prodotto alcuni esempi di etnopsicologia (vedi Harner, 1980; Peters, 1981; Konner, 1985; Walsh, 1 990; Ignacio, 1992).

Il problema, in un tale approccio, è quello di valutare la qualità della conoscenza che deriva dall'autosservazione di vissuti esperienziali, una dimensione che in passato, per una estrema ossessione di oggettività, la psicologia ha vissuto in maniera piuttosto problematica, in quanto il rischio è che ciò che si vede è in realtà ciò che si desidera vedere. Ma in virtù della imprescindibilità epistemologica della reintegrazione dell'osservatore questa è una condizione che ormai la psicologia condivide con tutte le altre scienze. Anzi la piena consapevolezza delle proprie costruzioni e del fatto che ogni processo di osservazione è anche un processo di autoosservazione sembra essere una posizione ben più matura della circolarità viziosa di una metodologia oggettiva che dà per scontato ciò che in realtà deve dimostrare. Come dice Nietzsche, nella Gaia Scienza, continuare a sognare sapendo di sognare è pur sempre diverso dal sognare puro e semplice.

Sia ben chiaro che il senso di un approccio esperienziale non è quello di scimmiottare lo sciamano; il senso più opportuno di considerare tale approccio consiste nel comprendere che alla base delle tecniche tradizionali di induzione di ASC, vi sono precise tecniche psicofisiologiche del corpo (Mauss, 1965).Ed è proprio attraverso la concettualizzazione in termini di tecniche psicofisiologiche del corpo che l'etnopsicologia può aprirsi a un approccio esperienziale della fenomenologia antropologica degli ASC; come rileva Venturini (1982): <`questo elemento di pratica, di esperienza diretta e non solo di conoscenza è un fatto col quale la psicologia convenzionale deve confrontarsi, ritrovando una dimensione smarrita e una sua fondamentale caratteristica differenziale nei rapporti con le altre discipline scientifiche.

L'apertura al vissuto esperienziale diventa un modo per accogliere quanto in noi è stato del resto solo culturalmente rimosso, come la storia delle religioni del mondo classico ha ampiamente evidenziato e come fenomeni, per quanto decrepiti, come il tarantismo, di dionisiaca memoria, sembrano volerci ricordare a proposito della nostra eredità storica e biologica. La nostra è una cultura affermatasi moderna sulla base della normalizzazione della coscienza, come dice Lapassade (1980), sulla rimozione di Dioniso.

E dall'insegnamento che sappiamo trarre dalla riflessione su cosa ci è appartenuto prima della normalizzazione cattolica, che la considerazione del carattere di costruzione culturale del nostro stato di coscienza ordinario può diventare piena consapevolezza; e ciò non per proporre regressioni arcaiche compensatorie, ma per realizzare invece una più realistica conoscenza di quali siano le potenzialità effettive della nostra coscienza. Perché: "la trance non è una semplice curiosità etnologica, un fenomeno marginale sopravvissuto in qualche società del terzo mondo, la trance è un modo di essere nel corpo" (Lapassade, 1980).

Le religioni estatiche, come sottolinea Peters (1981), sono nella storia dell'uomo la prima forma strutturata, con un contenuto simbolico e teorico e un repertorio di tecniche, di approccio alla sofferenza psichica, di utilizzo terapeutico di ASC e di sviluppo di potenzialità latenti, organizzate sulla base di una dimensione relazionale ecologica - nel senso più vasto del termine - fiduciosa.

È in virtù di tali contenuti, che lo studio etnopsicologico delle religioni estatiche aprendosi a una dimensione di pratica e di esperienza può "operare affinché nuovi strati ed aree della corporeità possano venire integrati nel vissuto corporeo... fino al punto che, questi, come stenogrammi di un realtà transpersonale si rivelino capaci di offrire un accesso a significati, scenari, strutture abitualmente preclusi all'esperienza ordinaria", (Venturini, 1989).

E se acquista la centralità della coscienza si rivela l'importanza della disciplina etnopsicologica per la psicologia tutta, in virtù del suo restituirci la ricchezza delle manifestazioni della coscienza, in una prospettiva ancora più ampia, che trascende ampiamente i confini della disciplina specialistica, è per l'uomo postmoderno, e per una sua crescita integrale e completa che la disciplina etnopsicologica diventa particolarmente significativa; perché, in definitiva, è a quest'ultimo che consegna la possibilità di riappropriarsi di quel pezzo ritrovato della propria esperienza che è la naturale tendenza ad esperire le molteplici forme non ordinarie della sua coscienza e l'autentica aspirazione a trascendere quei confini nei quali l'acculturazione ha frammentato l'esperienza.

Conclusioni
Dovrebbe a questo punto risultare più chiaro il senso della computazione di cui all'inizio e della complessa prospettiva interdisciplinare che sottende una adeguata individuazione della disciplina etnopsicologica. In ogni caso tale processo è ancora lontano dall'essere in qualche modo concluso e definitivo e anzi, caratteristica essenziale del modello presentato vuole essere l'attitudine a conservare una flessibilità e una plasticità sufficienti a ridefinirsi adeguatamente qualora nuove integrazioni lo rendano opportuno. Poiché è proprio da tale elasticità che può procedere la capacità di sapersi rimettere efficacemente in discussione, ovviando a quell'infelice esito, presente in tutte le teorie il cui scopo è l'autolegittimazione, che è il riduzionismo.

Note

1) Si rende innanzitutto necessaria una chiarificazione terminologica delle importanti implicazioni concettuali. Userò il termine coscienza e stato alterato di coscienza o anche l'abbreviatura inglese ASC in riferimento alla definizione sistemica di Tart (1976). Considererò gli ASC come il corrispettivo e come una adeguata concettualizzazione psicologica di ciò che gli antropologi chiamano estasi e trance.

2) Scrive Morin a proposito del concetto di ologramma che si tratta "forse di un principio cosmologico chiave. Esso concerne la complessità dell'organizzazione vivente, la complessità dell'organizzazione cerebrale e la complessità socioantropologica. Possiamo presentarlo così: il tutto è in un certo modo incluso nella parte che è inclusa nel tutto. L'organizzazione complessiva del tutto (holos) esige l'inscrizione (engramma) del tutto (ologramma) in ciascuna delle sue parti." (Morin, 1986).

Bibliografia

Assagioli R., Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, Astrolabio, Roma, 1973.

Bateson G., Verso una ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.

Bocchi G. e Cenuti M., (a cura di), La sfida della complessità, Fe It ri n e 11 i, Milano, 1985.

Boggio Gilot L., Forma e svi/uppo de//a coscienza, Asram Vidja, Roma, 1987.

Bourguignon E., Pe/igion, altered states of consciousness and social change, Ohio State University, 1986.

Coppo P., Medicine Traditionelle en Afrique, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1988.

Devereux G., Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma, 1978.

Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1974. 1

Feyerabend P.K., Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 1973.

Foerster H. von., Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987.

Freud S., Totem e tabù, Laterza, Bari, 1953.

Geertz C., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987.

Hamer M., The way of shamanism, Harper & Row, San Francisco, 1980.

Ignacio E., L'energia vitale come base della diagnosi olistica, in La magia della Consapevolezza, atti I Convegno Italiano di Psicologia Transpersonale, Ed. Maxmaur, Bagni di Lucca, 1992.

Konner M., Trance e guarigioni, Kos, n. 1 5, Il, 1985.

Lapassade G., Saggio sulla trance, Feltrinelli, Milano, 1980.

Lewis I.M., Le religioni estatiche, Astrolabio, Roma, 1972.

Lovelock J., Gaia, in Bocchi G. e Cenuti M., op. cit.

Morin E., La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1989.

Mauss M., Le tecniche del corpo, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965.

Nathan T., La follia degli Altri, Ponte alle grazie, Firenze, 1990.

Nietzsche F., 1881/1882 Idilli di Messina, La Gaia Scienza. Scelta di Frammenti Postumi, Mondadori, Milano, 1965.

Olivetti Belardinelli M., La costruzione della realtà, Boringhieri, Torino, 1974.

Peters L., An experiential study of nepalese shamanism, Journal of Transpersonal Psychology, vol.13, n. 1,1981.

Platone, Opere complete, Laterza, Bari, 1982.

Pribram K., Walsh R., Vaughan F., Capra F., et al., Psychology, Science and Spiritual Paths: contemporary issues, Journal of Transpersonal Psychology, vol.10, n.2, 1978.

Roheim G., Origine e finzione della cultura, Feltrinelli, Milano, 1972

Rorty R., La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986.

Rouget G., Musica e trance, Einaudi, Torino, 1986.

Tart C., The basic nature of Altered States of Consciousness: a system approach, Journal of Transpersonal Psychology, vol. 8, n.1,1976.

Varela F., Thomson J., Rosch E., La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1993.

Venturini R., Introduzione a, Goleman D., Esperienze orientali di Meditazione, Savelli, Milano, 1982.

Venturini R., Verso la psicofisiologia clinica, Lo Psicologo, IV, n. 11-12, Ed, Kappa, Roma, 1989.

Vico G., De Antiquissima Italorum Sapientia, Giovanni Silvestri, Milano, 1816.

Walsh R., The spirit of shamanism, J. Tearcher, Los Angeles, 1990.

Wilber K., Engler J., Brown D.P., Le trasformazioni della coscienza, Astrolabio, Roma, 1989.

Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.

Wittgenstein L., Note sul "Ramo d’oro" di Frazer, Adelphi, Milano, 1975 

tratto da: http://www.neurolinguistic.com/proxima/james/jam-24.htm


Musica ed esperienza religiosa in Giappone: il caso del kagura

di Daniele Sestili

Introduzione
Questo intervento si propone di illustrare brevemente la presenza della musica nella vita religiosa dei giapponesi, tramite l'esempio della cerimonia folklorica del kagura. Con tale termine si individuano una grande varietà di riti coreutico-musicali - cioè caratterizzati da musica e danza - diffusi su tutto il territorio del Giappone propriamente detto. In queste azioni rituali si fondono sincreticamente, su un sostrato sciamanico, shintoismo (la fede autoctona), buddhismo, taoismo e confucianesimo (1).

Con il vocabolo kagura oggi viene indicato, nell'uso comune, una varietà di spettacoli, sovente caratterizzati dall'impiego di maschere, collegati ai matsuri, le feste comunitarie dei sacrari shintoisti. Gli specialisti riconoscono invece specificamente come kagura ogni azione rituale, messa in atto in ambito popolare, costituita da un'invocazione del dio e da un vero e proprio spettacolo imperniato su musica e danza. La specificità del kagura è però rappresentata dalla finalità prettamente religiosa: il suo scopo precipuo è infatti quello di rinvigorire l'energia dei partecipanti. Va inoltre precisato che definire il kagura rito popolare (o folklorico), significa alludere innanzitutto a un comportamento espressivo proprio di "dilettanti" (e raramente di semiprofessionisti), sottintendendo nel contempo una natura prettamente locale dei singoli esempi.

Il vocabolo kagura è attestato già nell'antologia poetica Man'youshuu (VIII secolo) e compare in altri documenti ufficiali di poco successivi. Sarebbe la contrazione, secondo la teoria più accreditata, di kami + kura, "residenza degli dèi". Un'altra interpretazione vede invece il vocabolo come contrazione di kamigakari, "possessione". Comunque sia, entrambe le teorie rimandano a un rito in cui la divinità è considerata esser presente.

Ancora oggi i giapponesi fanno tradizionalmente risalire l'origine del kagura alla danza di possessione eseguita dalla dea Uzume di fronte alla "Caverna celeste" (cfr. di seguito La presenza della musica nel rito). Tale episodio mitologico è narrato in due cronache pseudo-storiche dell'VIII secolo, il Kojiki e il Nihonshoki (anche chiamato Nihongi). Più verosimilmente, in ambito accademico si propone quale epoca della nascita del kagura il periodo che va dal III al VI secolo, cioè quello in cui si avvia l'unificazione del Giappone sotto il clan Yamato.

Oggi riti coreutico-musicali identificati come kagura sono celebrati in tre delle quattro isole principali: Honshuu, Shikoku e Kyuushuu. Le due estremità opposte dell'arcipelago, Hokkaidou a nord-est e le isole Ryuukyuu a sud-ovest, non presentano esempi di kagura, essendo queste storicamente sede di civiltà altre, Ainu e Okinawana (2).

Il rito coreutico-musicale del kagura presenta attualmente una grande varietà di forme, determinate dal forte localismo della cultura popolare (a cui prima si è già fatto cenno). La genesi e la pratica di tutti questi riti è però strettamente collegata alle due figure sciamaniche attive nelle pratiche religiose popolari. Una è quella delle medium, specializzate nella possessione oracolare (quella durante la quale la divinità incarnata parla tramite la bocca della posseduta). Queste donne, quasi sempre cieche, sono ora concentrate nel Nord-est dell'isola principale. Tali figure vengono chiamate con termini quali kuchiyose, itako o, più frequentemente in ambito accademico, miko popolari. L'altro specialista è lo yamabushi, un asceta il cui operato si collega, pur essendo questi affiliato a sette buddhiste, a fenomeni classicamente sciamanici: estasi (volo extracorporeo), esorcismo, induzione della possessione vicaria, chiamata da parte di una figura extra-umana, ordalia iniziatoria e pratiche ascetiche nei ritiri in montagna.

La presenza della musica nel rito
La musica dei kagura costituisce probabilmente uno dei casi più significativi per esemplificare l'interrelazione di religione e comportamenti sonori in Giappone. È noto che le differenti religioni non sono mai indifferenti alla musica nella maggior parte delle culture tradizionali, siano esse semplici o complesse. Tale relazione è di sicuro estremamente varia: i comportamenti musicali sono interpretati come la più alta espressione di spiritualità in una parte del mondo e come fonte di depravazione in un'altra (3).

Il Giappone appartiene senza dubbio alla prima categoria. La spiccata natura sonoro dei riti shintoisti risulta subito chiaro a chiunque possa assistervi: impiego di tamburi per segnalare l'inizio e la fine delle cerimonie, il doppio battito delle mani degli officianti, l'andamento salmodiato della preghiera norito. Da parte sua, anche il buddhismo ha contribuito a rafforzare la presenza dell'espressione sonora nelle azioni rituali. Il Mahâyâna diede infatti al buddhismo giapponese un carattere emozionale e immediato, che ha favorito la manifestazione della devozione anche tramite la musica. Il kagura, come tutte le espressioni popolari giapponesi, non è esente dal sincretismo shintoismo-buddhismo.

È possibile intuire l'antichità del comportamento musicale nell'esperienza religiosa giapponese grazie alla descrizione di riti sciamanici proiettati nella mitologia. Episodio fondante di tale tradizione è quello, già citato, della "Caverna celeste". La dea solare Amaterasu, adirata per le malefatte del fratello Susanoo si rinchiude nella cosiddetta "Caverna del cielo", facendo piombare il mondo nell'oscurità. Le altre divinità si riuniscono in consiglio ed escogitano un piano per stanare Amaterasu, che culminerà con una danza della dea Uzume. La danza viene descritta come eseguita in stato di trance su un recipiente capovolto, fatto risuonare con i piedi(4). L'episodio si presenta pertanto come un archetipo di cerimonia volta a rinvigorire l'energia vitale dell'astro, in cui danza e musica (il recipiente capovolto usato a mo' di strumento a percussione) svolgono un ruolo centrale.

Gli strumenti musicali
Gli studi svolti negli ultimi decenni hanno ampiamente dimostrato che gli aspetti musicali dei kagura sono contrassegnati da un forte regionalismo, tipico peraltro di tutta la musica folklorica giapponese: differenti sono, per esempio, le scale impiegate, l'organizzazione ritmico-formale e altro ancora a seconda dell'area in cui si celebra il rito. Tuttavia una significativa omogeneità si riscontra nell'ambito organologico e interessa tutto il territorio giapponese. È dunque sugli strumenti musicali che concentreremo la nostra attenzione.

Gli strumenti impiegati nei diversi spettacoli rituali folklorici - e non solo nei kagura - sono principalmente tamburi, flauti, cimbali o piccoli gong; non è escluso però l'uso di altre percussioni, nonché di strumenti melodici differenti dal flauto traverso, quali il liuto shamisen o il flauto dritto shakuhachi. Nel caso specifico del kagura l'insieme è più rigorosamente limitato a un massimo di tre specifiche tipologie organologiche: tamburo, piatti e flauto traverso. Alla musica strumentale si può aggiungere il canto, o la recitazione salmodiata dei danzatori-attori. Tuttavia la presenza della voce non è costante: in alcuni esempi infatti, pur essendo lo spettacolo sicuramente in forma di teatro-danza, l'azione degli attori è esclusivamente mimica.

Le tre tipologie organologiche sono: tamburo, cimbali, flauto traverso.

* I tamburi impiegati nei kagura attuali sono sostanzialmente riconducibili a due tipologie, entrambi bipelli e percossi con una coppia di bacchette: tamburi cilindrici (ovvero quelli la cui cassa è caratterizzata da tale forma) e tamburi a barile (così denominati dalla forma bombata della cassa).

* I cimbali (dobyoushi) hanno un diametro al massimo di 20 cm e producono un timbro acuto e penetrante. Scandiscono il ritmo di base, costituendo così il punto di riferimento per gli altri strumenti. Collegati in origine alla tradizione buddhista, i dobyoushi devono essere stati introdotti nei riti autoctoni velocemente. In alcuni kagura i piatti sono scomparsi, a causa di successivi rimaneggiamenti dell'organico.
* Il flauto traverso (fue) è normalmente l'unico strumento melodico impiegato nei kagura. Il più usato, fornito di sei o sette fori digitali, è il cosiddetto shinobue, "flauto di shino", una varietà di bambù. Altri tipi di flauti, caratteristici di repertori professionali (nou e gagaku), sono però penetrati in alcuni kagura(5).

Gli esecutori
Si è già detto che il ruolo di esecutori del kagura è stato assunto, fin dalla creazione della cerimonia stessa, da due particolari operatori rituali: gli asceti yamabushi e le medium miko. Furono i primi, in particolare, grazie alla loro attività itinerante, a diffondere il rito nel paese. Le medium, in modo analogo, avevano tra le funzioni la celebrazione di kagura incentrati sulla possessione di una di loro. Il compito di eseguire il rito iniziò però a passare, a partire dal XVII secolo, ai fedeli o ai semiprofessionisti locali, perché gli asceti cominciarono a stanziarsi nei villaggi. Pertanto le tipologie attuali degli "attori" del kagura variano grandemente da luogo a luogo. Gli interpreti, contemporaneamente sia musicisti che danzatori-attori, possono essere i fedeli locali (e allora, spesso, questi sono affiancati da religiosi), i sacerdoti scintoisti, le miko, e, ormai solo raramente, gli yamabushi. Tratto comune a tutte queste figure è costituito dall'appartenenza al gruppo umano i cui componenti si ritengono "figli del dio" (ujiko) evocato e intrattenuto con il kagura(6).

Conclusioni
Cifra comune a tutto il territorio del Giappone storico sembra dunque essere la netta preferenza per alcuni strumenti musicali da utilizzare nel kagura. È vero che tale preferenza è riscontrabile anche nei gruppi che intervengono negli altri spettacoli rituali, ma nel caso del kagura tale primato pare radicarsi profondamente nella specifica natura del rito: in altri termini, una tendenza conservatrice nella scelta degli strumenti risulta derivare dalle specifiche valenze magico-religiose attribuite ai singoli strumenti.

In particolare, la predominanza e l'onnipresenza del tamburo crea un'innegabile analogia con la centralità del tamburo nello sciamanesimo "classico", quello dell'Asia settentrionale e centrale. Di conseguenza viene da supporre che l'impiego del tamburo nei kagura, e più in generale in gran parte delle pratiche rituali folkloriche giapponesi, trovi le sue radici proprio nello sciamanesimo. Tale affermazione non presuppone però un rapporto esclusivo tra questo tipo di membranofono e lo sciamanesimo: l'etnomusicologo francese Gilbert Rouget, in un suo studio ormai classico (Rouget 1980), ha dimostrato come praticamente ogni tipo di strumento possa essere impiegato per l'esecuzione di musica sia sciamanica in senso stretto che di possessione.

Resta il fatto che, nel caso del Giappone, il tamburo è significativamente legato, sin nei racconti mitologici, alle pratiche sciamaniche: l'episodio della "Caverna celeste" può infatti essere interpretato come pratica per il recupero dell'anima - quella della dea solare Amaterasu, "morta" nella caverna - in cui un tamburo sui generis, il recipiente capovolto, svolge una funzione determinante. Peraltro, nel Giappone contemporaneo il tamburo, di norma insieme al canto, si presenta come elemento immancabile nello scatenamento, nello sviluppo e nella risoluzione della trance di possessione che caratterizza alcuni rari casi di kagura.

Anche i cimbali, pure scomparsi da talune forme contemporanee di kagura, risultano profondamente radicati nella cultura sciamanica giapponese, come appare in particolar modo dalle ricostruzioni di riti di possessione celebrati in passato dalle medium miko. La musicologa Kojima ha giustamente evidenziato - sulla base anche dei dati forniti dall'etnografia musicale coreana - come, ancora oggi, la coppia tamburo a clessidra-cimbali costituisca il cuore dello strumentario impiegato durante i riti delle sciamane coreane, le mudang. Per inciso, va detto che analogo discorso vale per la sonagliera giapponese suzu, che trova un corrispondente, il pang'ul, nella cultura sciamanica coreana, e più in generale nei sonagli appesi al costume di molte figure sciamaniche dell'Asia continentale (7).

Analogamente, le valenze religiose del flauto traverso sono complesse e significative. Nello yamabushi kagura, sottogenere tipico dell'area nord-orientale dell'isola principale, il dio evocato si manifesta, secondo la credenza locale, tramite il suono del flauto. Così lo strumento, che è la "voce degli dèi", viene suonato spesso fuori scena per marcare il momento in cui la divinità-attore entra in scena. Immoos (1969) interpreta questo simbolismo come una delle forme più arcaiche di teofania, definendo il suono "maschera sonora".

Altrettanto interessanti sono gli esempi di flauti "trattati", propri dello yamabushi kagura della regione di Shimokita (prefettura di Aomori): qui una pallina di carta di riso viene inserita nel primo foro digitale dello strumento. Tale pratica potrebbe essere, secondo Kojima, un tentativo di imitare il timbro "aspro" degli antichi flauti di pietra, ancora oggi impiegati in alcuni santuari per evocare il dio. Va peraltro ricordato che nelle antiche cronache, in particolare nel Nihonshoki, il flauto è citato come strumento suonato nelle cerimonie funebri (8). Dato il carattere marcatamente sciamanico di tali cerimonie, atte al recupero dell'anima, pure questo aerofono si può inserire nella gamma di strumenti di antico impiego sciamanico.

Anche la voce umana, in molti esempi sparsi su tutto il territorio del Giappone, svolge un ruolo predominante, e è spesso accompagnata dal solo tamburo. Resta tuttavia il fatto - a cui già si è accennato - che se in molti kagura il canto può scomparire, non avviene mai che il tamburo sia assente. Più in generale, non può essere sottovalutata l'esistenza di repertori esclusivamente strumentali, in cui il canto cede totalmente il passo.

Ciò permette di formulare un'ipotesi con cui intendo chiudere queste brevi note. È ipotizzabile che il puro suono, avulso da un testo verbale, sia tuttora considerato mezzo privilegiato nella comunicazione con il divino dalla mentalità giapponese tradizionale, di cui il kagura è espressione preminente. La musica del kagura, analogamente alle altre componenti del rito, ha senza dubbio subìto alcune modificazioni nel corso dei secoli. Tuttavia i comportamenti musicali attuati nel suo ambito mantengono salde connessioni con le concezioni religiose sottostanti il rito. Il valore di utensili rituali attribuito a tamburo, flauto e cimbali, mai negato attraverso la storia del kagura, ha reso questi strumenti indispensabili per il corretto svolgimento della cerimonia, perpetuandone fino ai giorni nostri un uso non accessorio.

Note
1. Riguardo alla religione giapponese, che fonde sincreticamente fede autoctona con dottrine di importazione, si veda, per esempio, Raveri (1993).
2. Va precisato che, unica deroga, un kagura è praticato anche in Hokkaidou, nell'area di Matsumae (sulla costa rivolta verso lo Honshuu). In questa zona fu introdotto durante il periodo Edo (1600-1867), dopo la fondazione di un feudo, estremo baluardo nord-orientale del potere centrale.
3. A tale proposito si veda l'illuminante voce enciclopedica Music and Religion di Ellingson (1987).
4. Una traduzione italiana dell'episodio è inclusa in Pettazzoni (1929, pp. 60-64).
5. Con il termine gagaku si indica la musica e la danza di corte imperiale giapponese. Il nou è invece un teatro coreutico-musicale codificato tra XIV e XV secolo e ispirato ai valori spirituali ed estetici della classe dei guerrieri.
6. A questo punto della relazione è stata proposta la visione di due video realizzati sul campo dall'autore: Shishi mai, "Danza del leone" (eseguita da un gruppo di Yagiyama, provincia di Akita); Kiri tachi, "Spade taglienti", (eseguita dai sacerdoti del sacrario di Mitake, Oome, provincia di Tokyo).
7. Il suzu (o kagura suzu o, ancora, miko rei) è impiegato ampiamente nei kagura, dove è impugnato dai danzatori. È costituito da un manico a cui sono fissati i sonagli su tre ordini. La funzione del suzu è quella di attirare la divinità, perché si ritiene che sia oggetto a loro gradito: è pertanto considerato un ottimo catalizzatore per la discesa divina. Verosimilmente nell'antichità il prototipo della sonagliera serviva per segnalare la possessione dell'esecutore, grazie al movimento indotto allo strumento dal tremore del corpo.
8. Cfr. Sestili, Daniele. Le cronache storico-mitologiche come fonti per l'indagine sugli strumenti musicali del Giappone protostorico (2000, pp. 256-257).

Bibliografia
Asai, Susan. Origins of the Musical and Spiritual Syncretism of Nomai in Northern Japan, in "Asian Music", XXVIII/2 1997, pp. 51-71.
Asai, Susan. 1999. Nomai Dance Drama: A Surviving Spirit of Medieval Japan ("Contribution to the Study of Music and Dance, 47"). Greenwood Press, Westport (Connecticut) & London.
Averbuch, Irit. 1995. The Gods Come Dancing. A Study of the Japanese Ritual Dance of Yamabushi Kagura ("Cornell East Asia Series"). Cornell University, Ithaca NY.
Averbuch, Irit. Shamanic Dance in Japan. The Coreography of Possession in Kagura Performance, in "Asian Folklore Studies", n. 57, 1998, pp. 293-329.
Blacker, Carmen. 1975. The Catalpa Bow. A Study of Shamanistic Practices of Japanese Culture. Allen and Unwin, London.
Eliade, Mircea. 1952. Le chamanisme et les techniques archaiques de l'extase. Payot, Paris.
Ellingson, Ter. Drums, "The Encyclopedia of Religion", Mircea Eliade (ed.), Mac Millan Publishing Company, New York 1987, vol. IV, pp. 494-503.
Ellingson, Ter. Music and Religion, Mircea Eliade (ed.) The Encyclopedia of Religion, New York, MacMillan Publishing Company, 1987, vol. X, pp. 163-172.
Hoff, Frank. 1978. Song, Dance, Storytelling. Aspects of performing arts in Japan ("Cornell East Asia Series"). Cornell University, Ithaca NY.
Honda, Yasuji. 1962. Kagura. Mokujisha, Tokyo.
Hori, Ichiro. 1968. Folk Religion in Japan. University of Tokyo Press, Tokyo.
Hori, Ichiro. Shamanism in Japan, in "Japanese Journal of Religious Studies" II/4 1975, pp. 231-287.
Immoos, Thomas. The Birth of the Japanese Theatre, in "Monumenta Nipponica", XXIV/4 1969, pp. 403-414.
Inoura, Yoshinobu. 1981. Kawatake Toshio, the Traditional Theatre of Japan. Weatherhill, New York & Tokyo.
Ishizuka, Takatoshi. Kagura to shamanizumu [Kagura e sciamanesimo], in Nihon no shamanizumu to sono shuuhen [Sciamanesimo giapponese e dintorni], a cura di Katou Kyuuzou, Nihon housou kyoukai shuppan, Tokyo 1984, pp. 270-285.
Kagura-Kodai kabu to matsuri [Kagura-Le forme coreutico-musicali e i matsuri nell'antichita], ("Nihon koten geino" [Arti perfomative classiche giapponesi] 1), a cura del Geinoshi kenkyukai [Societa per lo studio storico delle arti performative], Heibonsha, Tokyo 1969.
Kojima, Tomiko. Hayashi to gakki [Lo hayashi e gli strumenti musicali], in Dento to gendai 7 [Tradizione ed eta moderna], a cura della Dento geijutsu no kai [Associazione per le arti tradizionali], Gakugei shorin, Tokyo 1969, pp. 144-170.
Kojima, Tomiko. Ongaku kara mita Nihon no shamanizumu [Lo sciamanesimo giapponese visto attraverso la musica], in Nihon no shamanizumu to sono shuuhen [Sciamanesimo giapponese e dintorni], a cura di Katou Kyuuzou, Nihon housou kyoukai shuppan, Tokyo 1984, pp. 288-333.
Kojima, Tomiko. Nihon kodai no shamanizumu to tsuzumi [L'antico sciamanesimo giapponese e il tamburo], in Shominzoku no ongaku-Koizumi Fumio sensei tsuito ronbunshu [Musiche etniche-Raccolta di saggi in memoria del professor Koizumi Fumio], Ongaku no tomosha, Tokyo 1986, pp. 258-278.
Nihon no gakki [Strumenti musicali giapponesi], a cura di Kikkawa Eishi, Tokyo shoseki, Tokyo 1992.
Nihon no gakki no genryu-koto, fue, tsuzumi, dotaku [Origini degli strumenti musicali giapponesi-cetre, flauti, tamburi e dotaku], atti del convegno omonimo; a cura del Kokuritsu rekishi minzoku hakubutsukan [Museo nazionale della storia e del foklore], Daiichi shobou, Tokyo 1995.
Obayashi, Taryo. Nihon no shamanizumu no keito [Genealogia dello sciamanesimo giapponese], in Nihon no shamanizumu to sono shuuhen [Sciamanesimo giapponese e dintorni], a cura di Katou Kyuuzou, Nihon housou kyoukai shuppan, Tokyo 1984, pp. 5-27.
Ottaviani, Gioia. 1994. Introduzione allo studio del teatro giapponese. La casa Usher, Firenze.
Pettazzoni, Raffaele. 1929. La mitologia giapponese secondo il primo libro del Kojiki. Zanichelli, Bologna.
Raveri, Massimo. 1984. Itinerari nel sacro. L'esperienza religiosa giapponese. Cafoscarina, Venezia.
Raveri, Massimo. Giappone (religioni), "Dizionario delle religioni", diretto da Giovanni Filoramo, Einaudi, Torino 1993, pp. 329-333.
Rouget, Gilbert. 1980. La musique et la trance. Gallimard, Paris (ed. it. Giuseppe Mongelli (a cura di). 1986. Musica e trance. Einaudi, Torino).
Sestili, Daniele. Musica, Chamanismo y Posesion en el Japon contemporaneo. Una comparacion con fuentes literarias, iconograficas y hallazgos arquelogicos, in "Estudios de Asia y Africa" XXXIV/110 (settembre-dicembre 1999), pp. 551-582.
Sestili, Daniele. 2000. La voce degli dei. Musica e religione nel rito giapponese del kagura. Ut Orpheus, Bologna.
Sestili, Daniele. Le cronache storico-mitologiche come fonti per l'indagine sugli strumenti musicali del Giappone protostorico, in "Rivista degli studi orientali", vol. LXXIII, 2000, pp. 247-264.
Sestili, Daniele. Minkan kagura: continuità e innovazione negli aspetti musicali del rito, "Il Giappone verso il terzo millennio: radici e prospettive - Atti del XXIII Convegno di studi giapponesi, San Marino, 23-25 settembre 1999", Città di Castello, 2001, pp. 283-296.
Shinto jiten [Enciclopedia dello Shinto], a cura del Kokugakuin daigaku Nihon bunka kenkyusho [Istituto per la cultura giapponese dell'Universita Kokugakuin], Kobundo 1994.
Uchida, Ruriko. Ongaku no sokumen kara mita shamanizumu no shoso [Aspetti dello sciamanesimo visto attraverso la musica], in Nihon no shamanizumu to sono shuuhen [Sciamanesimo giapponese e dintorni], a cura di Katou Kyuuzou, Nihon housou kyoukai shuppan, Tokyo 1984, pp. 338-351.
Discografia
Kagura, a cura di Yasuji Honda ("Nihon no minzoku geino" [Arti performative folkloriche del Giappone] I & II), 6 dischi, Victor, 1976.
Kagura: Japan sinto szertartasok zeneje - Japanese Shinto Ritual Music, a cura di Janos Karpati 1 cd, Hungaroton, 1990.
Kamigami no ongaku [Musica degli dei] - Music of Shinto, a cura di Eishi Kikkawa, 3 dischi, Toshiba, 1976.
Kyodo geino [Arti performative folkloriche], ("Hogaku" [Musica nazionale] 12), a cura di Masakatsu Gunji, 2 dischi, Chikuma shobou/Victor, 1971.
Nihon no fesutibaru [Festival in Giappone], a cura di Tomiko Kojima, 1 cd, King, 1991.
Nihon no omatsuri ongaku - Sato kagura to yataibayashi [Musica dei matsuri giapponesi - Sato kagura e yataibayashi], a cura di Kasho Machida, 1 disco, Columbia, 1959.

Tratto da: http://www.nipponico.com/dizionario/k/kagura.php


Introduction to Sufi Music and Ritual in Turkey

di Irene Markoff - York University

It is difficult to appreciate and understand Sufism fully without an informed exposure to the expressive cultural forms that help define and enhance it. It is this dimension of Islamic mysticism that transports the seeker on the path of spiritual attainment into higher states of consciousness that promise spiritual intoxication (wajd) and a unique and intimate union, even annihilation (fanâ'), in the supreme being. This emotional expression of faith is intensified and externalized in elaborate forms of meditation and esoteric techniques that are part of ritual ceremonies.

Through ritual, many Sufi orders and Sufi-related sects throughout the world of Islam have been able to articulate doctrines and beliefs through artistic traditions such as sung poetry, instrumental music and dance-like movements (samâ' or spiritual concerts) and have utilized meditation patterns that combine corporeal techniques and controlled breathing (dhikr; Turkish, zikr) to induce or conduct trance and ecstatic states.

In Turkey, the Sunni brotherhoods (tarikat) such as the Halveti (Khalwatiyya), Rifai (Rifâ'iyya) and Kadiri (Qâdiriyya) engage in the collective musical dhikr that was the principal Ottoman dervish ceremony. In the true spirit of dhikr (recollection of God), divine names and expression of tawhîd (Turkish, tevhid) (oneness of God with all existence) are repeated to rhythmic patterns often including rhythmic breathing, body postures with a variety of motions and hymns (ilâhî), songs of mystical love (gazel) and mersiye (sung poems commemorating the martyrdom of the imam Husayn at Karbala'). This form of worship meditation in line or circular formation is incomplete without recitation of passages from the Koran.

Segments of the Kadiri dhikr ritual were recorded in two Istanbul dervish lodges (1980 and 1988) by Kudsi Erguner, a Paris-based musician and Sufi, and issued on CD by the Geneva Ethnographic Museums's Archives of Popular Music. The ceremony begins with litanies (awrâd) that include verses from the Koran and praises to the Prophet Muhammad. This is followed by a poem of praise sung by singers called zakir (Arabic, dhakir) supported by rhythmic accompaniment supplied by disciples to the syllables of the profession of the faith (tahlîl formula). After a gazel (ghazal) is sung, the dhikr proper begins (Zikr-i Hay), which is chanted by the dervishes and forms an accompaniment for the zakir, who performs a poem of praise to the Prophet and then two ilahi-s (hymns sung to precomposed melodies that were the principal artistic forms produced by Sunni tarikat-s in Turkey). A taksim (solo instrumental improvisation in free rhythm) concludes the this section. Next follows a mersiye and a gazel, and finally an ilâhî punctuated by repetition of the syllable Hû (Him). The ceremony ends with the first and then the last three sura-s of the Koran.

The well-known Whirling Dervishes or Mevlevi order of Dervishes in Turkey incorporate elaborate choreographies (sema) accompanied by sung poetry from the Mathnawi of the founder of the order, Jalal al-Din Rumi (Mevlana), that is set to compositions in the tradition of Ottoman secular art music (based on the makam/mode system) into their devotional ceremonies. The musicians who performed this music were trained professionals and sometimes composers affiliated with the order who did not seek to enter into a state of trance.

Although there are elements of audition (such as that of prayers and invocations), the central core of the ceremony is the âyîn that focuses on the integration of music, poetry and dance and culminates in dhikr triggered by set forms of movement that increase in speed and intensity. The introductory segment of the ritual includes a poem in praise of the prophet known as naat and composed by Itri (1640-1712) that is sung unaccompanied, a taksim generally performed on the important end-blown flute (ney), and a perev (prelude or composed piece for instrumental ensemble in fixed meter that uses a specific melodic mode (makam) and a metric mode (usûl) comprising a "great" cycle of 28 primary beats that are repeated twice. It is at this point that the dervishes walk in procession around the ceremonial space and engage in ritual bowing.

The âyîn proper begins with the sema (whirling dance) performed to music (played on classical Turkish instruments and sung by a chamber chorus) in four sections known as (selâm- s). During the third selâm there is an increase in tempo (where a waltz rhythm is used) and a slowing down during the fourth where an air of restraint is once again maintained by the dervishes as they end the dance. The instrumentalists then perform a concluding prelude (son perev) and a concluding composition (yürük semai) followed by an instrumental taksim and recitations from the Koran.

Instruments heard in a recent recording of a complete Mevlevi ceremony (âyîn in the makam/mode of Ferahnâk Airan) by the Mevlevi Ensemble of Turkey (1995) are ney (end- blown flute), kanun (trapezoidal, plucked zither), kemençe (bowed, pear-shaped lute held vertically on the knees), tanbur (long-necked, plucked lute with frets), ûd (short-necked, fretless, plucked lute) and kudüm (a pair of small kettledrums).

The esoteric ceremonies of the rural and more recently urban-based heterodox Alevis (and related village Bektais and Tahtacis) reveal shamanistic survivals of a Central Asian Turkic past, Shi'i tendencies where the imam 'Ali is almost deified and a filiation with the Bektai order of dervishes. Formerly known as Kizilba, the Alevis were viewed with suspicion and mistrust because of their so-called clandestine activities and inclinations to revolt against the authority of Ottoman Sunni authority. They were stalwart in their support of Shah Ismail of Safavid Persia whose poetry (written under the pen-name Hata'i) they revered in the past and continue to revere today.

Alevi religious musical services are referred to collectively as cem or âyîn. Their purpose is not only to focus on spiritual exercises that include elements of zikr (without controlled breathing but with some elements of body posturing) and ritual dance (sema) accompanied by sung mystical poetry in the vernacular and the sacred ritual instrument known as balama or saz (plucked folk lute with frets). They also serve to reinforce social solidarity and correctness of behaviour through inculcating the beliefs and doctrines of the sect and saintly figures as well.

Music is performed by individuals recruited from Alevi communities and descended from holy lineages of religious leaders known as dede. These specialists are viewed with respect and known as zâkir, aik, sazende or güvende, depending on regional usage. Many are also known to be poet/minstrels (aik, ozan) who perpetuate the tradition of dervish-lodge (tekke) poets such as the much loved and admired Yunus Emre (13th century), Nesîmî (14th century), Pir Sultan Abdal, Hata'î and Genç Abdal (16th century) and Kul Himmet and Kul Hüseyn (17th century). The poetry was composed in the Turkish vernacular and follows the principles of folk prosody known as hece vezne in which the focus is the number of syllables.

The specialized sacred musical repertoire of Alevi musicians includes deyi (songs of mystical love), nefes (hymns concerning the mystical experience), düvaz or düvâzdeh imâm (hymns in honor of the 12 Alid imams), mersiye (laments concerning the martyrdom of the imam Huseyn at Kerbela), miraclama (songs about the ascent of the prophet Muhamad to heaven) and sema (ritual dance that is accompanied by folk lutes and sung poetry). The dances are performed with dignity by couples, and choreographies employ circle and line formations as well as arrangements where couples face one another, thus synchronizing their movements more closely. As the tempo of the music increases, the figures become more complex and intense. There are many regional variants of sema, but the most widespread and important are the Dance of the Forty (Krklar Semah) and the Dance of the Cranes (Turnalar Semah) where the movements of the dance illustrate links to a shamanistic legacy and the transformation of shamans into birds who take flight.

The gathering of the forty saints refers to the moment, after the Prophet's ascension to heaven, when he beheld the manifestation of Divine Reality in Ali. The Alevis believe that this gathering can be viewed as the prototype for their central rite (âyîn-i-cem, görgü cemi), the Rite of Integration. This is a complex ritual occasion in which a variety of tasks are allotted to incumbents bound together by extrafamilial brotherhood (musahiplik) who undertake a dramatization of unity and integration under the direction of the spiritual leader (dede). The dede interacts formally with his 12 assistants and the body of worshippers as he applies Alevi religious idioms that reinforce links to Sunni Islam, the Bektai order of Dervishes and Shii Islam as well. The âyîn-i-cem can be heard on the JVC CD Turkey.

An Esoteric Sufi Ceremony. Unfortunately for non-specialists, the notes are very vague and give no indication of location, performers, musical genres or poetic forms. The recording was made in Istanbul in 1993, and the ceremony includes in an order typical of a cem: a deyi that reiterates the line of descent of the sect in a historical framework, two düvaz (one based on the poetry of Hatayi, and the other on the poetry of Kul Himmet), prayer formulas, the illâllâh genre that incorporates the tahlîl formula into the poem to create an atmosphere of zikr while sect members create rhythmic intensity by hitting their knees in time to the music and sway their bodies slightly, the Dance of the Forty (Krklar Semah), the Dance of the Cranes (Turnalar Semah) and prayer formulas.

Similar recordings of the Alevi cem (Alevilikte Cem) have appeared in Turkey and are useful in supplying information regarding the names of genres and the order in which they appear, although the recording mentioned below does not include all of the items mentioned on the cassette cover.

Recordings

1. Turquie. Ceremonie des derviches Kadiri. Recorded by Kudsi Erguner in 1980 and 1988 in Istanbul. Notes by Ahmed Kudsi Erguner, Abdelhamid Bouzouzou. Archives Internationales de Musique Populaire, Musée d'etnographie, Geneva. AIMP XII. CD-587. Recording can be purchased from: Musée d'etnographie, 65-67 boulevard Carl Vogt, CH-1205 Geneve; tel. (4122) 28 12 18.

2. Returning. The Music of the Whirling Dervishes. Recorded in 1995 and performed by the Mevlevi Ensemble, directed by Dogan Ergin with Kani Karaca as featured solo artist (in place of a chorus). Interworld CD-916. The âyîn featured on this recording was composed by Dogan Ergin in the makam/mode of Ferahnâk Airan. Recordings can be purchased from: Interworld Music Associates, RD3 Box 395A, Brattleboro, VT 05301 or tel. (800) 698-6705.

3. Turkish Music. Music of the Mevlevi. Unesco Collection--A Musical Anthology of the Orient. Recordings and Commentary by Bernard Mauguin. Barenreiter Musicaphon. BM 30 L 2019. This long-play record was not made recently but is valuable because of the detailed notes and accompanying photographs.

4. Turkey. An Esoteric Sufi Ceremony. CD recorded in Istanbul in 1993 under the supervision of Dr. Tsutomu Oohashi. JVC World Sounds. VICG-5345. Manufactured and distributed by Victor Entertainment, Inc., Tokyo, Japan. The recording is useful as documentation of an event, but the accompanying notes show little or no understanding of the subject matter.

5. Alevilikte Cem 2. A commercial cassette (12271) recorded and produced in Istanbul, Turkey, that presents an entire Alevi cem and identifies the individual genres heard and the zakir (singer and balama player), Adnan Klç. Pnar Müzik Üretim ve Yapimcilik Tic. Ltd. (Fax: 513- 5087).

tratto da: http://www.goldenhorn.com/display.php4?content=library&page=golden_markoff.html

Torna all'indice